martedì 21 gennaio 2014

Hamangi, il cimitero di Tripoli/Un normale finesettimana in Libia

La musica e la danza a Sabratha


Da molto tempo non scrivo più attorno alla Libia. Non vi sono mai più tornato. E non voglio spulciare ogni notizia che appare nel web per riprendere a scriverne copiando storie impossibili da verificare.
Non riesco a immaginare né Tripoli, né Bengasi. Ho imparato che quanto si scrive, quanto si legge su un giornale o su un blog è solo una piccola parte della realtà. E’ la realtà di chi scrive. Ognuno di noi, vuole vedere cosa vuol vedere.
Oggi faccio un’eccezione al mio silenzio. Tra le tante brutte notizie (arrivano solo brutte notizie dalla Libia, nessuno che ci racconti qualche quotidianità) me ne colpisce una: il nuovo assalto al cimitero ‘italiano’ di Hammangi. Eppure a scorrere qualche sito e le pagine del Lybia Herald appena al di là del Mediterraneo l’ultimo finesettimana è stato drammatico.

Una vecchia festa di Mawled, anniversario della nascita del Profeta

La deriva della Libia (ma anche dell’Egitto e del Libano, la ferocia della guerra in Siria, la violenza in Iraq e, poi, a scendere verso l’Africa si scivola verso una linea degli orrori: in Centrafrica, in Sud Sudan, in Somalia, in Congo, nel Nord della Nigeria, in Mali….) non appare quasi più sui giornali.
Si scopre che vi sono italiani al lavoro in Cirenaica, regione secessionista della Libia, solo quando due operai calabresi, Francesco Scalise e Luciano Grillo, vengono sequestrati fra Derna e Tobruk (e io penso: come mi era apparsa dolce Derna. Non potevo immaginare questa città come luogo del fondamentalismo radicale dell’Islam). Ci si allarma per la nostra dipendenza dal gas libico solo quando viene interrotto da milizie berbere il terminale del gasdotto che arriva in Italia. I pozzi petroliferi sono affidati alla protezione e al ricatto di milizie claniche.

Questa era la mia Tripoli

Metto assieme, con poche fonti e senza controlli, gli ultimi giorni di Libia (copio da internet, insomma). Ecco quanto è accaduto: a Tripoli viene sequestrato Han Seok Woo, responsabile dell’agenzia commerciale sudcoreana; a Janzour, cittadina-sobborgo a ovest di Tripoli, infuria una battaglia fra clan di paesi rivali (undici morti e sequestri incrociati di due leader); guerra aperta a colpi di mortaio a Sebha, nel Sud del paese, fra i tebu, popolo sahariano dalla pelle nera, e clan arabi; milizie pro-gheddafiane si impossessano della base aerea di Sebha e milizie di Misurata che scendono dal Nord per aiutare l’esercito (regolare?) a riprenderne il controllo; uccisi, a Bengasi, quattro esperti artificieri attirati in una trappola. Tutto questo accade appena oltre il Mediterraneo. La Libia, come mille altri luoghi, è solo un rumore di fondo nell’oceano dell’informazione.

L'ingresso al cimitero di Hamangi

E io, come due anni fa, davvero senza una vera ragione rispetto alla gravità di quanto accade ogni giorno in Libia, rimango colpito da un articolo che leggo con la solita distrazione, ma si ferma nella mia testa. In pochi giorni, fra venerdì e lunedì, uomini armati, con le bandiere verdi dei gheddafiani, hanno fatto irruzione due volte nel vecchio cimitero ‘italiano’ di Tripoli. Non è lontano dal centro della città. E’ conosciuto come Hammangi. Una volta qualcuno mi spiegò che si poteva tradurre con ‘Bagno Turco’. Non ne sono stato mai sicuro, c’è assonanza, è vero, ma non mi torna, non può essere. Anche durante la guerra civile (perché adesso non è la stessa guerra con continua?) i fedeli del rais assalirono il cimitero.

Bruno davanti alla lapide di Italo Balbo


Non so che fine abbia fatto Bruno. Oggi dovrebbe avere quasi 80 anni. Un vecchio italiano. So che non se andò quando, due anni fa, gli italiani vennero evacuati. Era il custode del cimitero, è l’uomo che aveva saputo salvarlo e ‘ricostruirlo’ dopo decenni di abbandono. I giornalisti italiani, nei giorni di stanca, andavano da lui per scrivere il loro articolo quotidiano.
Hammangi, luogo di sepolture, era la sua vita. So che, nelle prime settimane della guerra, Bruno era riuscito a portare a casa l’archivio degli oltre seimila uomini e donne sepolti in quel cimitero. Lui lo aveva ricomposto in venti anni di lavoro meticoloso.
Hammangi era l’ultima dimora terrena non solo dei coloniali italiani (qui venne sepolto anche il più irrituale dei gerarchi fascisti, Italo Balbo, caduto con il suo aereo nel primo giorno della seconda guerra mondiale) o dei cristiani di Libia. Negli ultimi anni, questo cimitero aveva accolto i corpi dei migranti, di chi era annegato nel tentativo di raggiungere l’Italia, di chi non era di religione islamica. Come se qualcuno avesse mai chiesto la religione ai senegalesi, ai cinesi o ai nigeriani sepolti qua?

Il cimitero di Hamangi


Sono entrato la prima volta al cimitero di Hammangi molti anni fa. Allora era in rovina. I sepolcri erano spezzati, lapidi in frantumi, ossa disperse. Era stato abbandonato dopo che gli italiani, nel 1970, erano stati cacciati, da un giovane Gheddafi, dalla nuova Libia rivoluzionaria. I miei passi furono di malinconia.

La mia Tripoli


Molti anni dopo un amico mi convinse a tornare ad Hammangi. Aveva appena scritto un racconto sul cimitero e sull’impresa compiuta, in solitudine, da Bruno e da sua moglie Nura. Il cimitero adesso era custodito. Grandi restauri erano stati compiuti grazie a finanziamenti del governo italiano e al consenso della Libia. Era stata restituita dignità a questo luogo. E il merito era tutto di Bruno e di sua moglie. Che avevano ricostruito le storie di tutti gli italiani che lì sono sepolti. Avevano consentito ai parenti di rintracciarli. Avevano dato pace alle loro ossa. Bruno parlava con questi morti. Era come se, e non sembri assurdo, avesse salvato la vita oltre la morte. Aveva donato una memoria a chi era stato dimenticato. Quando assieme entrammo in un lungo corridoio di tombe, Bruno mi annunciò alle ossa: ‘Ragazzi, abbiamo visite’, disse a voce alta.

Il vecchio guardiano di Leptis Magna


Ora leggo che per due volte, in pochi giorni, le bande gheddaffiane (ma siamo sicuri che le definizioni abbiano qualche valore in questa follia libica? E’ stato aperto un vaso di Pandora e la guerra è di tutti contro tutti) hanno assalito il cimitero. Non so se il custode libico si sia salvato. Leggo della sua casa devastata, della sua auto incendiata. Non so niente di Bruno.

La mia Tripoli

Posso solo riprendere in mano il libro che Luca Cosentino (‘Da Tripoli al Messak’, edito quattro anni fa da Terre di Mezzo). C’è un bel racconto dedicato a Bruno e al cimitero di Hammangi. Tutto quello che posso fare è riprendere il racconto di Luca. Eccone alcune righe:

‘…..Bruno mi attende seduto su una vecchia panchina, accanto alla moglie. Sarà lui ad accompagnarmi in questa visita ed a raccontarmi le vicende di questo cimitero e delle persone qui sepolte. Bruno infatti lavora qui da quasi 20 anni ed è grazie a lui che è stato possibile portare a termine questo progetto di risistemazione, apparentemente un normale progetto di edilizia civile che però ha avuto in questo caso dei risvolti davvero fuori dal comune. Si doveva lavorare infatti su un terreno devastato, dove i corpi affioravano tra gli sterpi e i riferimenti erano del tutto smarriti. Occorreva ricostruire la geometria originale del cimitero, ritrovare le file e le tombe, riconoscere i corpi, risistemare le spoglie in nuove cassette, provvedere alla classificazione e all'inumazione nei nuovi ossari. Mentre beviamo un thè verde all'ombra dei grandi eucalipti dell'ingresso, Bruno racconta come la parte più complessa sia stata proprio quella di dare un nome a tutti i corpi ritrovati sopra e sotto terra. Un lavoro durato anni e realizzato a partire da deboli tracce, una croce ancora in piedi, una bara con un nome, dei vecchi registri nell'ufficio amministrativo. Un incrocio di dati e informazioni da far coincidere, come un'interminabile sciarada.


Il cimitero di Tripoli

Bruno ha svolto questo compito immane con incredibile tenacia, aiutato solo dalla moglie e da un pugno di operai egiziani pagati alla giornata dall'ambasciata italiana. Per quasi vent'anni ha consacrato tutto il suo tempo libero a questo progetto, senza che gli fosse stato richiesto e senza essere pagato. Quando gli si chiede perché abbia fatto tutto questo, lui risponde con disarmante semplicità che è solo compassione per quei poveri corpi di italiani morti lontano dal suolo natio e dalle proprie radici. Compassione per chi, come lui, non ha vissuto mai in Italia ma è italiano e deve aver diritto ad un fazzoletto di patria attorno alle proprie spoglie. Parole che esprimono un'idea comune eppure toccante, un concetto che suona nobile anche a chi, come me, è abituato a diffidare della retorica che sempre si associa al concetto di patria…’.

Firenze, 22 gennaio 2014





venerdì 17 gennaio 2014

San Mauro Forte/Il suono dei campanacci


E stasera, 16 gennaio, per le strade di San Mauro Forte, notte di Sant'Antonio Abate, in Lucania, il suono dei campanacci. 



























martedì 14 gennaio 2014

Addis Abeba/L'imperatore, la suffragetta comunista, il ribelle, i partigiani, il cantante

La tomba di un arbanoucc, un partigiano etiopico

Cimitero dei patrioti. Cimitero degli uomini celebri d’Etiopia. Ma, in un posto d’onore, nel giardinetto davanti ai gradini che conducono alla Sellasiè Church, la grande chiesa ortodossa della Trinità, riposa Sylvia Pankhurst. Aveva 78 anni, nel 1960, quando l’imperatore Hailè Selassiè decretò che questa donna inglese aveva diritto a funerali di gloria e fosse sepolta nel più importante cimitero di Addis Abeba. Là dove lui stesso aveva deciso che avrebbe finito la sua vita terrena. Sylvia Pankhurst è la sola straniera fra coloro a cui è stato concesso di venire sepolti attorno alla chiesa più importante della capitale dell’Etiopia. Ed è una storia a suo modo sorprendente. Sylvia, figlia di Emmeline Pankhurst, donna ribelle dell’800 britannico, battagliera sostenitrice del diritto di voto alle donne, era una comunista radicale, aveva fondato il partito comunista inglese, ne era uscita a sinistra e aveva litigato perfino con Lenin. Doveva essere una grande donna. Dal carattere tosto anche se le sue foto mostrano una dolcezza fuori del tempo. A 45 anni, Sylvia ebbe un figlio, Richard (oggi, quasi novantenne, è uno degli storici più importanti dell’Etiopia), e rifiutò di sposarne il padre, un anarchico italiano. Nel 1936 militò nei movimenti anticoloniali e si battè contro l’invasione italiana del solo paese indipendente dell’Africa. Fu così che maturò la paradossale amicizia fra un imperatore africano per diritto divino, un autocrate spietato, e una donna inglese che sognava la libertà in nome del comunismo. Nel 1956, Hailè Selassiè invitò Sylvia a vivere ad Addis Abeba. Non avrebbe più lasciato il suo nuovo paese.
L'abuna dagli occhiali scuri

La Selassiè Church

Bisogna avere attenzione in questo cimitero. E’ uno specchio dell’Etiopia. Ne racchiude i misteri incomprensibili a noi occidentali. ‘Cera e oro’, si dice qui ad Addis Abeba: ‘una parola, due significati’. Niente è come sembra. Qui, nella cappella più importante della chiesa, è sepolto proprio il negus, il ‘re dei re’, il 225esimo successore di Menelik I, il figlio della regina di Saba e di re Salomone. Negli anni ’30, Hailè Selassiè, divinità per l’Etiopia rurale e per i rastafarians giamaicani, aveva ordinato la costruzione della chiesa della Trinità pensando di farne il proprio mausoleo. Oggi, nel cimitero che accerchia la basilica è sepolto Melles Zenawi, il primo ministro dell’Etiopia, morto nel 2012. Melles, per decenni, è stato un ribelle. Comunista filo-albanese, si diceva. Leader della gente tigrina del Nord del paese. Capo guerrigliero. La sua lotta sfiancò una tirannia africana che, anch’essa, si diceva comunista. Per quasi vent’anni, dal 1991, dopo la incredibile vittoria di quella guerriglia, Melles è stato l’uomo forte dell’Etiopia. Fu lui, nel 2000, ben otto anni dopo il ritrovamento delle sue ossa, ad autorizzare il funerale solenne di quell’imperatore con cui niente aveva a che spartire. Melles allora disse: ‘Non dimenticate che era un tiranno e un oppressore’. Oggi, il ‘re dei re’ e l’ex-guerrigliero sono sepolti a pochi metri di distanza. Ingombrante e marmoreo (un marmo scuro, dai riflessi granata) il sarcofago di Hailè Selassiè si trova nella ostinata penombra della grande chiesa. La tomba di Melles Zenawi, invece, è all’esterno, fra gli alberi dei giardini dove la gente di Addis Abeba cerca pace dal traffico della città. Il suo sepolcro in pietra nera, vanamente addolcito da fiori di plastica, è sorvegliato da soldati armati ed è privo di sfarzi. Vi è una sua grande foto: ha in mano il libro ‘The spirit of Africa‘.
La statua dorata di Telahun Gessasse


 
Abba Patros di fronte alla tomba di Asnakech Worku
Strano cimitero. Racconta la storia irraccontabile di questo paese. Qui, in un angolo quasi dimenticato, vi è il sepolcro di Lorenzo Taezaz, un eritreo che fu fra i consiglieri più vicini all’imperatore. E proprio l’Eritrea, la sua lotta per l’indipendenza, sarà la miccia che consumerà il potere decrepito di Hailé Selassiè. La tomba di Lorenzo è accerchiata dalle erbacce, la sua statua fu scolpita da uno scultore italiano. Ha lasciato una firma: Ferruccio Vezzoni, artista toscano, celebre per i suoi busti funebri.
Qui riposano anche gli abuna, i vescovi, i patriarchi della chiesa ortodossa. Mi colpisce la foto di uno di questi alti prelati con occhiali scuri. E poi i notabili delle corti reali e i cantanti. Abba Petros, un giovane prete (parla italiano, sta studiando filologia a Bari, questi sono gli incontri imprevisti di Addis Abeba), mi accompagna a una tomba-monumento. E’ sovrastata da un krar in pietra dorata. Asnakech Worku era ‘la regina del krar’, strumento simile a una cetra a cinque o sei corde con cui inseguire i ritmi delle scale pentatoniche delle musiche d’Etiopia. Sembra di sentire il suo suono ipnotico: si srotola fra i ginepri che fanno ombra alla sua tomba. Cimitero musicale: anche la statua di Telahun Gessasse, cantante strappacuori, è dorata. Una chiave musicale è scolpita nel marmo nero e Telahun continua a cantare allungando il braccio verso il pubblico. Canta per gli arbagnuocci partigiani della Resistenza etiopica contro gli invasori italiani. Sono sepolti qui con le loro armi e le loro medaglie. E poi, più recentemente, ha cantato, in maniera muta, anche per l’equipaggio dell’aereo di Ethiopian Airlines precipitato in Libano nel 2010.

La tomba di Sylvia Pankhrust

La tomba della moglie di Lorenzo Taezaz

 
L'orto fra le tombe
Un uomo, un vecchio, vestito con eleganza antica e stracciata, mi guida fra le tombe. Dice che vive qui, nella chiesa, nel cimitero. Mi mostra il suo piccolo orto. Spinaci, alcune piantine di cipolla, un’insalata, una piantina di pomodori. Verdure che crescono ai bordi di una tomba. L’imperatore, il ribelle, i musicisti possono essere contenti. E anche la comunista Sylvia può esserlo: cimitero imperiale con addosso una strana idea di democrazia.

(questo articolo è la versione integrale dell'articolo uscito sul numero Cinque di Erodoto. www.erodoto108.com )




sabato 4 gennaio 2014

L'ostaria è un teatro



(versione integrale di un articolo apparso sul numero 5 di Erodoto108) 


Questo non sarà solo un breve articolo. E’ un innamoramento improvviso. E come ogni colpo di fulmine non rispetta alcuna regola. Tutto è accaduto perché mai, fra una leggera nebbia autunnale, nella piana malinconica della Riviera del Brenta (per me, toscano, un mondo senza colline non è nemmeno immaginabile), a fianco del fosso delle Donne (dove si parcheggia, scivolandoci dentro, quando si è ubriachi)…ecco, ho perso il filo. 

Ricomincio. Allora: mai avrei immaginato di trovare qui, in una osteria (una ostaria, in realtà) del profondo Nord-Est, un manifesto con su Totò (che era napoletano del rione Sanità) accanto alla bellezza da lacrime di Tina Modotti (donna messicana che, in fondo, era nata a Udine).  Entro e nell’osteria e i due volti spiccano come stelle sul perlinato che ancora protegge, come nei tempi antichi, le pareti di questo locale. E’ bastata questa visione a sbigottirmi e a far battere il mio cuore. Amore a prima vista. Così ho mandato a rane tutti i miei pregiudizi sul Nord-Est e vi racconto dell’Ostaria dei Kankari. Che poi, da queste parti, sono gli ubriachi.

Totò e Tina mi hanno distratto. E così non vi ho detto della bandiera No-Tav che sventola dal balcone sopra l’ingresso dell’osteria. E nemmeno della scritta, un po’ nascosta, che, da sempre, sta affissa sopra la porta: Foresto ricorda: in sto locale i osti gà ea mare putana. Bisogno di traduzione? No, non credo. Se così non è, inventatevi il vostro significato.
Arredo spartano, una ventina di tavoli in due stanze, dove sono riusciti a fare entrare perfino un piccolo palcoscenico per musiche e spettacoli. E, naturalmente, un bancone da bacaro con sopra la delizia di cento spunceti, leccorniose tapas veneziane. In estate, si mangia all’aperto e dentro si gioca a biliardino.
Entri qui dentro e subito scopri che, oltre al vino e a birre eccellenti, hanno anche la spuma. Anzi: ‘E’ tornata la spuma’, annuncia, con orgoglio, un manifesto. E un altro cartello colorato invita ad assaggiare la pasta, pasta kankara, ovviamente. ‘Leggermente piccante. Appetitosa. Afrodisiaca. Per l’appetito di chi sa amare’. Ecco, sono arrivato a casa.




Non è semplice, per chi non è di queste parti, raggiungere l’ostaria. Non sta mica in paese. E’ imbrecanata in questa piana dove, nei mesi dell’inverno, si stende la nebbia del Nord-Est. Non so dirvi dove sia. Dalle parti di Mira, un paesone, quarantamila abitanti, dalla storia operaia (ricordate la Mira Lanza?), persa in un cruciverba di fossi, argini di canali, pioppeti, rotonde, e case sparse. La troverete, non preoccupatevi. Questo locale passa per essere il più bohèmienne della Riviera del Brenta e, in certi giorni, proprio quando la nebbia è più fitta, si viene qui (e vengono tutti) a cercare conforto alla malinconia e mettere assieme briciole di gioia. Si vezzeggiano un poco all’ostaria. Descrivono così i loro amici-clienti: ‘filosofi (falliti), musicisti (falliti), illustratori (falliti), giornalisti (falliti)’. E infine: ‘metalmeccanici e figli di troia (questi ultimi invece riuscitissimi), tutti allegramente seduti agli stessi tavoli uniti’. Sì, sono arrivato a casa.

Fra l’altro, questo luogo ha storia: l’ostaria c’è da sempre. Un tempo era il bar Sprint. Per anni e anni è stata conosciuta come Checco, il cancaro, luogo da leggenda del Nord-Est, quelle che racconta Marco Paolini. E qui veniva Paolino, che, alle nove del mattino, già si aggrappava al bancone per bersi due ombre. Mezzo vino e mezza acqua, perché il dottore gli aveva detto di dimezzare le sue dosi quotidiane. Tenete presente che, a Mira, il mezzo bicchiere, da allora, è conosciuto come Paolino. Qui, attorno a questi tavoli, si riuniva anche la sinistra ostinata a sopravvivere in un Veneto democristiano. Baluardo rosso. Gli operai della Mira Lanza e i contadini dei campi di mais passavano qui il loro tempo liberato e perduto.  Adesso sta qui la gente che intuisce che la bandiera bianca dei No-Tav rappresenta qualcosa di più che una battaglia contro un treno.

Moira


Adesso tocca ai personaggi e interpreti. Ho conosciuto Moira, 38 anni, a una tranquilla semina di granoturco in un campo su cui vogliono costruire un centro commerciale. Stava lì a suonare una immensa fisarmonica e a cucinare salsicce e polenta. Vi erano ragioni a sufficienza per conoscerla meglio. E’ così che ho scoperto che fa l’ostessa. Da quindici anni. Lasciò il teatro e il pianoforte per amore di un ragazzo che voleva fare l’oste. Ma poi lui se ne andò, lasciando solo lei dietro al bancone.  Anni duri, immagino. Ma l’attrice imparò a cucinare, a passare il tempo con Paolino che fumava quattro pacchetti di sigarette al giorno e andava avanti a mezze ombre. Pagò debiti su debiti. E alla fine decise: ‘Se io non posso andare in giro a fare teatro, porto qui il teatro’. E l’ostaria divenne palcoscenico per uno spettacolo ogni sera. Un luogo da favole. Non so quanto dorma Moira. Piccola, rotonda, occhi che scintillano di meraviglia, un sorriso che dà felicità, lei è cuoca, fisarmonicista, suona il pianoforte e ora sta ritrovando anche il modo di tornare a fare teatro. Di sé fa scrivere: è il perfetto caso delle ‘braccia tolte alla cultura, e donate alla viticoltura’. Mica vero: la cucina di Moira è leggenda popolare e tutti noi seguiamo ballando lei che cammina con la fisarmonica in mano. E’ vera cultura, questa ostessa.

Marco è quello con la barba
Poi c’è Marco. Compagno di Moira. Barba, pochi capelli, sorriso gentile, parole sommesse. Cultore profondo di birre in terra di vini bianchi. Segno cancaro, e quindi predestinato. Tranquillo, pacioso, attento. Quasi un maestro di sala mentre raccoglie ordini ai tavoli. In più suona, canta e ha una chiacchiera per tutti coloro che qua entrano.

Musica in osteria

Mi dicono di Juri. Non c’era quando io sono venuto qua. Cameriere tutto fare. ‘Faceva parte dell’arredamento quando mi sono ritrovata qua dentro’, ricorda Moira. Quindi copio, e mi fido, quanto scrivono di lui: ‘Leggenda delle leggende: racchiude in se stesso il gatto con gli stivali, il gobbo di Notre Dame, Gianni e Pinotto (tutti e due insieme, come se Pinotto avesse mangiato Gianni), il mago Galbusera, Paolo Rossi (tutti e due, come se l’attore avesse mangiato il calciatore) e soprattutto Batman e Robin’. Come se Batman avesse mangiato Robin. Ho un’ottima ragione per smarrirmi nuovamente alla ricerca di questa osteria: bisogna conoscere Juri.

Altre buone ragioni: qui si va alla riscoperta della memoria di un popolo. Delle feste. La luna peosa, a ottobre, a esempio: se coperta di vapori e nebbia, sarà anno da ricordare. O il capodanno contadino, a marzo, con tanto di gemellaggio con Tiggiano, paese della Puglia, dove si compie lo stesso rito dimenticato. Si va di casale in casale a festeggiare i contadini. E poi qui si celebra anche sant’Ippazio, E, giorno importante, si viene all’ostaria, la notte di Natale. Dopo la messa, si passano le ore notturne della festa santa assieme a Moira.

Il menù


Alla fine quasi mi dimentico il cibo. Che è roba da leccarsi i baffi. Cibo a chilometro zero. Viene dall’orto (hanno anche il tempo per l’orto!). Cavoli e verze in inverno. Perfino cavolo nero in Veneto, una rarità. Con pancetta. E poi polenta e salsicce. Pasta. Ma quando mi sono seduto al tavolo, ho assaggiato il bufalino (e c’era anche l’asino). Povere bestie (attenzione: menu per vegetariani e perfino per vegani, non preoccupatevi), ma questa carne arriva dal microallevamento di un contadino che sta a meno di mezzo chilometro da qui e che stava per fallire perché cacciato via dal mercato del latte quando ha deciso di allevarli, i bufali.

Ecco, Marco ora scrive il menù con una grafia quasi invisibile da amanuense. Si siede al tavolo con noi e, chiacchierando, consiglia e suggerisce. Il racconto dei cibi è già spettacolo. Sì bisogna avere tempo, all’ostaria dei Kankari. Ed è un bel tempo.

Ostaria dai Kankari, Via Fossa Donna, 93, Marano di Mira (Venezia); Tel. 041.479594;http://kankari.it/; e-mail: ostariadaikankari@gmail.com . Gli osti avvertono: la controlliamo ogni giorno di San Mai. Giorni e orari di apertura: Lunedì: 11.45 – 14.45 / 19.00 – 2.00; da mercoledì a sabato: 19.00 – 2.00. Domenica: 17.00 – 2.00;  Riposo settimana: martedì.