lunedì 24 febbraio 2014

1. Viaggio verso Gerusalemme

La danza dei cristiani

Attraverso mille mondi in poche ore.
Tassi per l’aeroporto di Firenze. L’autista è una ragazzina bionda dai capelli decolorati. Unghie color verde pisello e l’aria di chi ha fatto tardi la notte. Chiodo sotto il labbro. Voce inesistente. Parla a sussurri. Non esista a chiedermi 25 euro.
Aereo per Roma. Viaggio dentro il mondo arabo e cinese. Hanno voli in connessione a Fiumicino. Famiglie arabe che tornano a casa per una vacanza. Donne con il velo. Uomini sovrappeso. I figli più grandi che parlano con accento fiorentino. Scarpe da ginnastica con i brillantini e pantaloni attillati sotto gli spolverini. Gli arabi sono eccitati da ritorno, gli uomini guidano le donne con fare da macho. I cinesi sono sfingi silenziose.
Aeroporto di Fiumicino. Un ebreo dalla pancia enorme indossa i filatteri e prega mormorando versetti della Torah. Muove le labbra e cammina ondeggiando. Un giovane accanto a lui dondola con occhi commossi. Pregano e poi aprono il computer e si mettono a frugare nelle mail bevendo coca-cola. Molti uomini indossano la kippà. Alcuni preti cattolici silenziosi con la croce di Tau sopra il maglione.
Aeroporto di Tel Aviv. In fondo alla scaletta, una ragazza falasha di seconda generazione. I genitori devono essere emigrati dall’Etiopia quasi trent’anni fa. L’architettura da superbia dell’aeroporto. Arrivi sempre con apprensione. Ci si mette anche il pilota: ‘Le autorità militari israeliane chiedono di non fotografare dall’aereo….’. Temi i controlli israeliani. La loro insistenza. Trovi la normalità. Tre domande in croce: perché sei qui, dove dormi, chi è con te. E hai la entry card blu che puoi tenere fuori dal passaporto. Tutto semplice. Solo l’autista del taxi collettivo per Gerusalemme è brusco e scortese. Viaggio con due ragazzi svedesi senza soldi, con un haredim pallido, con un americano stravolto da un viaggio dall’Alaska, con un ebreo brasiliano dalle grandi occhiaie.

Preghiera al Kotel

Salita agli ottocento metri di Gerusalemme. Torrette qua e là. Alcuni reticolati. Il
muro, vicino alla città, chiude l’orizzonte della strada. Periferie in costruzione. Gru e palazzi che salgono verso l’alto in una città-formicaio. In giro solo haredi, un alveare nero di cappelli, pastrani, camicie bianche, bambini dai lunghi riccioli. Non ne non conosco le diverse appartenenze, so che sono il 37% degli abitanti di Gerusalemme. E’ cambiata la composizione della città. Al solito camminano in fretta.

Lo shuttle mi molla Jaffa Gate. Devo attraversare tutta la Città Vecchia. Le ruotine del mio zaino fanno un bel fracasso sulle pietre bianche di Gerusalemme. Nessuno nei vicoli. Mi sento un po’ assurdo. Mi perdo. Dei ragazzi con l’aria da bullo mi rimettono in strada, ci scambiamo battute. Mi chiedono a che stazione è il mio ostello. E intendono le stazioni della Via Crucis. Vanno di moda i capelli rasati alla mohicano. Alla fine, un ragazzo mi accompagna fin davanti alla porta dell’ostello. Mi saluta: ‘Questa è Palestina. Benvenuto. Non è Israele’. E alza il pollice con l’aria serissima’. L’ostello è a due passi dalla porta di Damasco. Ti fanno pagare dove sei, per il resto non vale i soldi che chiedono. Ma l’uomo all’ingresso è simpatico. Scrive a penna il mio nome e parla lentamente.

La moschea di al-Aqsa


Cammino verso la porta di Damasco. Operai palestinesi stanno rifacendo la pavimentazione della strada. Pietre bianche. Se la prendono mentre scatto una foto. Un uomo si avvicina, mi chiede di dove sono: ‘Viva l’Italia, viva la Palestina. Benvenuto’.  Soldati israeliani passeggiano pigramente (divise mimetiche, divise blu scuro) con i loro fucili. Un ragazzo si ostina a vendere frutta sui primi scalini della Porta di Damasco. Fuori, nella piazza, il mio ristorante preferito. Casa. Maxi-schermo con l’Atletico Madrid, gruppetti di ragazzi, una microcoppia di ragazzi giapponesi tutti presi dai loro strumenti musicali. L’humus, al solito, è colmo d’olio. Intingo, con piacere silenzioso, la pita. E guardo la partita.

giovedì 20 febbraio 2014

Viaggiatrici Viaggianti/Lettera per Francesca




So molte cose di lei. Mi sono arrampicato su pagine che smontano e rimontano la sua arte. In molti hanno cercato di interpretare il suo lavoro e la sua vita. L’hanno raccontato con un linguaggio raffinato e aggrovigliato. Pagine scritte da critici, da biografi, da studiosi. Ho visto le sue grandi mostre. Tre anni fa, a Milano e a Siena. Ancora girano. In realtà, non so niente di lei. Con banalità, mi chiedo che cosa avrebbe pensato di queste parole e della fama che, a oltre trent’anni dalla sua morte, continua a crescere. Francesca, come ci si sente a essere una leggenda, una fotografa di culto e non aver compiuto 23 anni?

Quante foto hai scattato in meno di nove anni di lavoro? Ma davvero si può considerare come avvio della tua avventura di artista anche quella, splendida, prima foto che, a tredici anni, ti riprende già con i capelli a coprire il volto? Svanivi, svanivi sempre Francesca. Hai scattato decine e decine di ‘foto fantasma’. Che, quasi sempre, con ossessione, coglievano l’attimo di una fuga, di un togliersi di mezzo, di uno stare su un margine. Sempre sui confini della cornice quadrata delle tue foto. Un apparire e uno scomparire incessante. Volevi fotografare l’inesistente, ho letto da qualche parte. ‘Inesistente come gli angeli’. E ho anche letto che non sono più di cinquecento le tue foto. Al Mart di Rovereto ho visto una tua foto: bisognava immaginarla, piccola, quadrata (il tuo formato), messa ben più in alto di dove il mio sguardo poteva arrivare. Si intravedeva appena. Le tue foto, in fondo, si devono intuire più che guardare.

Francesca Woodman, Untitled, Rome, 1977-78 11, gelatine estate silver print, 5x11,5cm

Quando ho visto, per la prima volta, una tua foto? Solo di recente ho saputo che, per qualche tempo, abbiamo anche vissuto non troppo distanti uno dall’altra. Nelle campagne della Toscana. Perché sono certo di aver visto una tua foto quando non era possibile? Perché ora voglio inserirti in questi ‘racconti’ che vogliono narrare di donne viaggiatrici? Non lo so, Francesca. Non sei una viaggatrice, ma lo voglio fare e basta. In fondo tu, giovane fotografa, volevi qualcosa di semplice: dare ‘soddisfazione all’occhio’. E se tutto fosse più facile di come vogliono farci intendere? Le tue foto, le tue poche foto, foto di corpi, del tuo corpo, intravisto in magazzini dalle pareti scrostate, in case vuote, in stanze deserte e abbandonate, sono ‘solo’ belle.





Francesca Woodman ha viaggiato solo fra il Colorado, le campagne attorno a Firenze, via dei Coronari a Roma e, infine, un appartamento a New York. Non è una viaggiatrice, ma il suo corpo ha saputo raccontare, forse meglio di ogni viaggio fisico, l’emozione dell’andare. Un viaggio quasi immobile. Un viaggio straordinario e brevissimo. Nasce a Denver, Francesca. Nel 1958. E’ figlia di due artisti. Il padre è un pittore e un fotografo, la madre ceramista. Il fratello, diresti oggi, è un videomaker. I genitori comprano una casa all’Antella, un paese a due passi da Firenze. Vi passano le vacanze estive. Francesca frequenta un anno di elementari in Italia. Il padre le mostra l’arte classica. Le regala una macchina fotografica. Negli Stati Uniti, in una scuola privata, una sua insegnante sarà la fotografa Wendy McNeil.
Wendy le insegna che la fotografia è ‘qualcosa che ha a che fare con i sentimenti’. Diventa il suo cammino, questo. La sua ricerca ossessiva. Torna in Italia, Francesca. Vive a Roma. Si imbatte in un piccolo universo di artisti. Ignora gli uragani della violenza che scuotono l’Italia della fine degli anni ’70. Non è femminista, Francesca. Lei, nel tragitto fra la casa e la sua università, si ferma sempre davanti a una libreria irreale ‘attratta da una scatola di legno che conteneva delle cartoline, delle fotografie e dei vecchi quaderni di scuola’. La libreria un nome da enigma, si chiama Maldoror, allucinato eroe, protagonista di un poema che, nell’800, anticipava i movimenti surrealisti. Francesca diventa una compagna di avventure di Giuseppe e Paolo, i due librai. Gira per Roma con ‘una borsa piena di arnesi strani e divertenti, matite e colori, cibi e pesci puzzolenti. Era una borsa quasi magica’. Un giorno apre la porta della libreria e lascia su un tavolo una scatola grigia. A Giuseppe dice: ‘Sono una fotografa’. Dentro ci sono ventitré fotografie. Il libraio rimane senza fiato: quella ragazza di 19 anni, dalle gonne di un altro secolo, dall’aria da adolescente, era capace di seduzione e possedeva un’energia immensa. Era luminosa, Francesca. E instancabile: fotografa, fotografa, fotografa. Non si distrae mai. Passa notti intere in camera oscura. E’ pignola. Attenta, tenace. Non è un’artista maledetta. Dentro di sé, qualcosa la tiene in piedi ogni oltre fatica. ‘Nelle sue foto c’è la potenza del fuoco ardente e non la mestizia della cenere’, scrive Isabella Pedicini, una scrittrice che più di altri ha saputo narrarci di Francesca.

Eel Series, Roma, May 1977 - August 1978 1977-8
Black and white silver gelatin print on paper



Nel quartiere di San Lorenzo, la giovane fotografa scopre un nascondiglio di artisti: gli spazi vuoti di un vecchio pastificio. Là ci sono le mura scrostate, le pareti invase dalla muffa, gli intonaci macchiati di umidità. E’ lo sfondo delle sue foto. E’ come se Francesca si mettesse a confronto con sé stessa: una casa, una fabbrica che è stata abbandonata, spigoli di pietra e il suo corpo morbido. C’è una foto in cui, in questa desolazione, appare una calle. Già, le calle che già furono fotografare, in Messico, da Tina Modotti. Cosa c’è in questi fiori? Francesca si fotografa nuda e appena dietro l’angolo della stanza c’è questo fiore meraviglioso. La donna e il fiore si osservano di nascosto. E’ sensualità.

Cammina fra le bancarelle di Porta Portese. Le piacciono davvero i pesci. Il suo corpo si attorciglia come le anguille che mette sul pavimento. La pelle di Francesca sfugge. Si fa autoritratti. Ma è come se, all’ultimo momento, cambiasse idee: c’è sempre una traccia, ma il suo corpo è in fuga. A volte non rimane che un braccio, un ginocchio piegato, un fianco che si divincola, la mano sul flessibile dello scatto. I capelli nascondono quasi sempre il suo volto. Oppure sono maschere, tappezzerie, cortecce di betulla a impedirci di vedere i suoi occhi. Usa tempi lunghi, fa doppie esposizioni, chiude il diaframma. I dettagli delle foto sono perfettamente visibili: è il suo corpo che diventa nebbia di primavera. Vorresti fermarlo, guardarlo, toccarlo e non c’è più. E ancora una volta tutto è più semplice di quanto sembri: ‘Fotografo me stessa perché sono sempre disponibile’. I librai di Maldoror le organizzano, nel marzo del 1978, la sua prima mostra. Lavorò molto a questa esposizione. Mandò inviti su cui sono incollati provini per contatto. E il giorno dell’inaugurazione non si fece vedere. Una sua amica la ritrovò sui gradini di casa. Rideva e piangeva.


Self-portrait at 13 


Torna in America, Francesca. Va a vivere a New York. Come è lontana, Roma. Tutto è troppo veloce. Cosa si rompe, Francesca? Ricorda il padre: ‘Le cose non si muovevano velocemente. Tutto troppo rapido e se non sei veloce…’. Non so, guardo le foto di sua figlia e penso alla bellezza della sua lentezza. Non riesco a mettere assieme Francesca e la velocità. Perché non sei tornata nelle campagne fiorentine? Perché un giorno non hai nuovamente salito i gradini del vecchio pastificio di via degli Ausoni a Roma? Forse avremmo potuto incontrarci. Avrei cercato di vedere il mondo con i tuoi occhi. In molti, oggi, quando scrivono di te, ricopiano un frammento di una lettera scritta a un amico italiano: la mia vita ‘a questo punto’, racconti, ‘è paragonabile ai sedimenti di una vecchia tazza da caffè e vorrei piuttosto morire giovane, preservando ciò che è stato fatto, anziché cancellare confusamente tutte queste cose delicate’. E’ vero, Francesca, usi l’aggettivo giusto: le tue foto sono ‘delicate’. Avevano previsto tutto quei fondi di caffè?

A gennaio del 1981, a Filadelfia, esce il suo primo e ultimo libro. Sono quindici fotografie ‘incollate’ sulle pagine di un piccolo manuale di esercizi di geometria destinato ai bambini delle elementari. Il libro proveniva dalla libreria Maldoror. Francesca racconta la sua storia fotografica in uno strano confronto fra la sua vita e le pagine dei segni geometrici. Ancora una volta è un lavoro delicato, dolcissimo. Il libro si chiama Some disordered interior geometries. Cosa hai provato quando lo hai tenuto in mano?

Isabella Pedicini ha un pudore attorcigliato nelle sue parole quando deve pur dire cosa è successo pochi giorni dopo la pubblicazione del suo libro. Nessuno dei biografi pronuncia la parola inaccettabile. Anche Isabella non riesce a scriverla e, usando il tempo presente, annota in fretta: ‘Il 19 dello stesso mese abbandona volontariamente la vita’. Quel giorno Francesca Woodman si gettò da una finestra del Barbizon Building a Manhattan. L’edificio è conosciuto come ‘l’hotel delle donne’.  

[Le fotografie qui presentate, nel rispetto del diritto d'autore, vengono riprodotte per finalità di critica e discussione ai sensi degli artt. 65 comma 2, 70 comma 1 bis e 101 comma 1 Legge 633/1941.]

 






domenica 9 febbraio 2014

Luoghi di resistenza (in)consapevole/On the road, libri di viaggio a Firenze

Martina davanti alla sua libreria

Jack Kerouac incrocia una Kawasaki. Una Zzr, una bella moto da strada. La guarda mentre viene parcheggiata in una Firenze che non è centro, ma non è nemmeno periferia. Piazza Giorgini, se la guardi dalla Fortezza da Basso, sta in uno di quei quartieri cresciuti, nel dopoguerra, al di là della ferrovia.
Jack ti sorprende sempre. Ha seguito una ragazza che guida, con orgogliosa lentezza, la Kawasaki. Lei incastra la moto davanti alla sua libreria, appena aperta in quella piazza. Martina ha scelto, come nome, On the road, il titolo del libro più celebre fra quanti scritti dai vagabondi della Beat Generation. Ha preteso che nel logo ci fosse una moto. Prima smentita: ‘E’ vero, quel libro è un inno al viaggio. Ma io ho deciso di chiamare così la libreria perché essere sulla strada vuol dire essere pronti a qualsiasi imprevisto. Significa essere capaci di cambiare se qualcosa non va come avevi programmato’.  E’ Jack, questa volta, a essere stupito. Ripone la sua vanità. Io cerco una contraddizione nei sogni di Martina: scenografa, motociclista, sognatrice di viaggi, libraia. Ce n’è a sufficienza per convincermi a entrare in questa piccola bottega di piazza Giorgini. Perché, ne sono quasi certo, questo luogo, in realtà, è una bottega. Penso:  ‘Qui bisogna venire apposta, non passerò mai per caso davanti a questi libri, qui devo scegliere di venirci’.  Martina mi smentisce un’altra volta e mi parla della gente del quartiere che guarda incuriosita a questa giovane libraia.

Libreria On the Road


Martina Castagnoli, 32 anni, ha aperto la libreria ‘On the road’ lo scorso 31 di novembre. Inverno alle porte. Natale alle porte. Ci sono storie in comune per i ‘nuovi’ librai: hanno voglia di cambiare vita, hanno un coraggio sventato, cercano di non ascoltare i saggi avvertimenti di chi consiglia di lasciar perdere. Credo di aver capito: si apre una libreria perché si asseconda un desiderio, una passione. Per mesi e mesi ci si è interrogati: cosa voglio fare? Cosa mi dà piacere? ‘Viaggiare e leggere’, ha pensato Martina. E, come conseguenza, ha deciso, con determinazione, di aprire una libreria di viaggi. Senza farsi dissuadere da ostacoli e difficoltà.

Scaffali


La mappa dei racconti dei librai di viaggio, cartografia di luoghi di resistenza che stiamo cercando di disegnare, si arricchisce così della storia fiorentina di Martina. Ama anche il cinema, questa ragazza. Soprattutto il cinema. Studia all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Vuole fare la scenografa. A 23 anni va a Roma. Gira per case di produzione, fa la cameriera, lascia curriculum in giro. ‘Il cinema ti permette di viaggiare con la fantasia. Viaggi nella storia, nel tempo, nello spazio’. Un’occasione, prima o poi, capita. Martina si presenta a Giantito Burchiellaro, famoso scenografo (Sostiene Pereira, Prendimi l’anima). E lui le presta ascolto: ‘Puoi venire a imparare’. E Martina, per mesi, si ritrova a disegnare camini del ‘600 per le scenografie del Caravaggio. A sera corre a servire clienti in un ristorante di largo Argentina.

Martina fa la scenografa per sette anni. Lavora per Fandango. Con lo scenografo Alessandro Vannucci. Anni belli, intensi, ma anche anni incerti. Lei dice di sé: ‘Sono un tecnico, il mio è un mestiere. Non sono un’artista. Amavo e amo il cinema, ma mal sopportavo essere costretta di continuo a tenere quelle che si chiamano pubbliche relazioni’. Il lavoro nel cinema è attesa. Mesi per essere chiamata per un film. E Martina non sa aspettare. E’ una ‘pentola a pressione’ di impazienza. Zimba l’aiuta a cambiare vita.

Martina e la carte


Zimba è uno spinone di trentacinque chili. Appare nella vita di Martina, fa parte di una cucciolata quasi nata sul set del suo ultimo film. Lei, da anni, voleva un cane e ora è arrivato. Quindi è tempo di lasciare il cinema e tornare a Firenze. Accadeva poco meno di due anni fa: Martina ha quasi trent’anni. Ha deciso di fare la libraia. Libraia specializzata. In viaggi. Coincidenza dopo coincidenza: sta per chiudere La Stella Alpina, storica libreria dei viaggiatori fiorentini. E’ un cambio di generazione fra librai. Vi è un piccolo spazio di mercato. Coincidenze come talismani: Martina passeggia per Verona e si imbatte in due altri librai, Luigi e Giorgio, loro sono la libreria di viaggi Gulliver. Amore a prima vista: stage estivo in Veneto, dunque; i due librai veronesi le insegnano a muoversi fra scrittori, case editrici, scaffali, distributori e magazzini.
Poi, tutto diventa veloce. Ecco, la piccola bottega di piazza Giorgini, seicento euro di affitto, un buon prezzo. Si può fare. L’inaugurazione. E, qualche mese, dopo Martina è ancora energia. Anche se scopre che per un bel po’ di tempo non potrà viaggiare. E’ sola nella sua libreria. Magazzino ridotto al minimo. Sugli scaffali solo i libri che lei vuole leggere. Poi le guide e i mappamondi. Ma anche molta narrativa: ‘Ho scoperto libri meravigliosi’. Viaggia davvero con la mente, Martina. Gli arredamenti sono degni del suo vecchio mestiere. ‘On the road’ è una bottega colorata, piena di oggetti. Valigia in vetrina. Ci sono statue e maschere africane: il suo compagno è un italiano nato in Malawi. La libreria è anche Punto Touring.

Maschere africane


Lascio parlare lei: ‘Fremo per non poter viaggiare, ma la fantasia mi aiuta. Qui entrano persone che hanno dei sogni e io cerco di aiutarle per un pezzo della loro strada. Do una mano a realizzare quello che desiderano. Si affidano a me per capire cosa scoprire in un paese’. Quasi una missione.
Facciamo un gioco, allora. ‘Io dico Iran, e tu?’. ‘Effendi. Di Freya Stark’. ‘New York?’ ‘Paul Auster. O la Pastorale americana’. ‘Messico?’. ‘Pino Cacucci’. ‘Parigi?’. ‘Zazie nel metrò’. Non sono molti a chiedere di Afriche, confessa Martina. Peccato, è una sua terra. Guai? La grande distribuzione non ha attenzioni per le piccole librerie. Pretende fidejussioni e grandi ordini. E allora Martina, nella pausa del pranzo, va a comprare i suoi libri dai grossisti della periferia. Quante ore lavori? Quanto guadagni? ‘Ancora non riesco a darmi uno stipendio. Mi riconoscono sconti ridicoli sui libri’. E-book? ‘Mai. I libri sono carta e non scompariranno mai. Il kindle è una moda. Passerà’. Grandi librerie? ‘Non sono capaci di avere attenzione per i lettori. Per loro sono clienti, non persone. Non sanno consigliare e aiutare’. Promozione? ‘Sono dovuta andare su facebook, ma credo di più nel passaparola’. E l’impazienza? ‘I libri mi tranquillizzano’.

Libreria On the road


Anche Jack Kerouac adesso è tranquillo. Non l’ho mai visto così quieto e soddisfatto. Si mette a curiosare fra i libri. Cerca le sue pagine, immagino. Se ne sta lì di fronte agli scaffali del NordAmerica e sembra sfogliare una guida della Highway 66. Come se volesse riprendere il cammino. Poi si siede sulla sedia a dondolo che sta al centro della libreria. Accetta un tè, senza pretendere una birra. Le piccole librerie davvero sorprendono. Soprattutto quelle On the road.

Firenze, 9 febbraio 2014




mercoledì 5 febbraio 2014

Gli occhi di Egeria

Egeria


Un sicomoro. Un grande albero. Immenso, quasi una cupola. Al riparo della sua ombra si svolgono incontri e assemblee di villaggio. Albero sacro. ‘Dicono che sia stato piantato dai patriarchi’, annota Egeria nel suo diario. E’ vecchissimo, il sicomoro. ‘Però da ancora dei frutti’. E ‘chiunque ha una malattia, va lì, prende dei ramoscelli e questo gli fa bene’. Egeria ascolta con attenzione il racconto del vescovo di Ramesse. Il sant’uomo le dice che l’albero è conosciuto come dendros alethiae, ‘l’albero della verità’. Chissà se esiste ancora. A volte, sono immortali i sicomori. Siamo nel Basso Egitto, delta del Nilo. Forse Ramesse è la città perduta di Quantir. I biblisti ne sono quasi certi. Egeria, in viaggio da pellegrina, ce ne ha lasciato il ricordo, la memoria, una traccia.

Posso immaginare l’ostinazione del monaco di Montecassino che, nell’XI secolo, trascrisse quei fogli di pergamena sui quali Egeria, a Costantinopoli, sulla via del ritorno, aveva scritto una infinita lettera-diario alle proprie ‘sorelle’. Una scrittura di donna per una comunità di donne. Una buona parte della fatica di quell’uomo silenzioso e solitario è andata perduta. Molte pagine si sono smarrite, ma il cuore del racconto di uno dei viaggi più appassionanti dell’antichità è arrivato fino a noi grazie a quell’amanuense silenzioso.
Immagino anche la felicità riservata di Gian Francesco Gamurrini, storico e archeologo aretino, quando, nel 1884, in una biblioteca monastica della sua città rilesse, per la prima volta dopo sette secoli, quelle pagine perdute ricopiate da quel monaco sconosciuto. Gamurrini nascose la sua emozione, ma stese sul grande tavolo della sala di lettura una mappa del Medioriente e provò, muovendo un dito, a ripercorre il viaggio di Egeria. Si stupì dell’impresa di quella donna. Gamurrini aveva ritrovato il diario scomparso del più importane pellegrinaggio cristiano dell’antichità romana.

Pellegrini a Gerusalemme


Nella sola raffigurazione che sono riuscito a trovare, Egeria ha occhi profondi, scuri, malinconici. Occhiaie ben marcate. Un naso lungo, capelli riuniti quasi a crocchia, un giro di collana di pietre verdi attorno al collo. Orecchini che sembrano scintillare. Non riesco a intuire i suoi pensieri. Chi sei, Egeria? Perché, nel 381 dopo Cristo, anni della pax romana dei tempi post-costantiniani, ti sei messa in cammino? Tre anni di viaggio. Una donna sola sulle strade del Medioriente. Da Costantinopoli al Sinai, dall’Egitto del Nilo a Gerusalemme, dal monte Nebo a Edessa, dalla Palestina alla Mesopotamia. Certo, la forza dello spirito è stata una ragione profonda per convincerti a incamminarti sulle strade del Mediterraneo: volevi vedere i luoghi santi, andare a pregare sulla tomba di Giobbe e sfiorare il roveto ardente sul monte Sinai. Volevi guardare con i tuoi occhi le terre raccontate dalla Bibbia. E’ un motivo sufficiente? Egeria ha il ritmo del narratore essenziale: compie un viaggio straordinario e lo descrive con efficacia minimalista. Sentite: ‘Arrivammo ad un luogo dove i monti, attraverso i quali stavamo andando, si aprivano e formavano una valle immensa che si estendeva a perdita d'occhio, tutta pianeggiante e molto bella, e oltre la valle appariva la santa montagna di Dio: il Sinai’.

La Gerusalemme immaginata


Era una donna colta, coraggiosa, certamente ricca, probabilmente dalle origini aristocratiche. Gli studiosi del sacro hanno pensato di identificarla con Silvia, una giovane della Gallia, imparentata con Flavio Rufino, ministro dell’imperatore Teodosio I. In realtà, si chiamava Egeria e il suo viaggio era stato ben più lungo. Era partita dalla Galizia spagnola, lontana periferia dell’Impero. Forse era vedova e non era più giovanissima. Si muoveva con calma, il suo cammino aveva saggezza. La sua spiritualità era profonda, ma non aveva la severa radicalità degli asceti. Non cercava la mortificazione, questa donna. Era allegra, pronta al sorriso e alla letizia, Egeria. Era una donna moderna nei tempi più arcaici del cristianesimo. In quegli stessi anni, Gregorio di Nissa, teologo e vescovo greco, sconsigliava i pellegrinaggi perché ponevano ‘a repentaglio la purità’. Soprattutto delle donne. Le locande dell’oriente, a leggere Gregorio, sono ‘assai licenziose e indifferenti riguardo al male’. Non vi si può soggiornare senza esserne ‘infetti’. Ma Egeria non desiste: a suo modo, è una rivoluzionaria. Scardina, con il suo andare di preghiera e di gioia, il mondo chiuso dell’antichità. E’ donna e la sua femminilità è ‘capace di aprire tutte le porte, nel segno della fede’.

La Gerusalemme reale


Egeria si mette in cammino per religiosità, il cristianesimo è il nuovo credo delle terre romane, si può finalmente raggiungere Gerusalemme per andare a inginocchiarsi sul sepolcro di Cristo. Viaggia per pregare, questa donna. Per devozione. In ogni luogo, legge pagine della Bibbia, vera bussola di questo pellegrinaggio, e recita orazioni. Ma vi è altro. Ben altro: Egeria viaggia per curiosità. Viaggia, soprattutto, per desiderio. ‘Si muove in forza del suo desiderio’, scrive Agostino Clerici, sacerdote a Como e raffinato saggista. E via via, scorrendo le pagine del diario di Egeria, ce ne accorgiamo anche noi lettori. Viene anche a noi il desiderio di andare, di essere lì, con lei. Questa donna ha davvero forza: si arrampica, con fatica, sui sentieri che conducono alla vetta del monte Sinai, si ostina a raggiungere la tomba di Giobbe, affronta deserti e montagne, attraversa territori insicuri, vuole pregare là dove Giovanni Battista battezzava i fedeli della nuova religione. Egeria vuole vedere con i propri occhi il mare che si aprì davanti al popolo di Israele in fuga dall’Egitto. Percorre ogni strada del Medioriente, Egeria. Ruota attorno a Gerusalemme, si ferma a lungo nella città santa, ci regala una descrizione accurata delle liturgie della chiesa del IV secolo.
Il Santo Sepolcro


Avrei voluto vedere, assieme a Egeria, la processione di chi si era appena battezzato nelle acque della sorgente di Giovanni Battista. Valle del Giordano,‘valle bellissima e amena, piena di viti e di alberi’: doveva esserci una gran folla nei giorni di Pasqua. Al mattino, dopo il battesimo, la processione dei nuovi cristiani, dei monaci e dei chierici tornava alla sorgente ‘recitando salmi e antifone’. Solo la luce delle candele illuminava il sacro di queste acque. Egeria, nel suo pellegrinaggio, è riuscita nel miracolo di far marciare assieme ‘grazia e natura’.



‘Il diario di viaggio’ di Egeria, curato da Elena Giannarelli con introduzione di Agostino Clerici, è pubblicato dalle edizioni Paoline.

Dopo aver scritto, mi è venuto da pensare al sangue che oggi tinge di orrori le montagne del Sinai, le terre aspre della Siria, i fiumi dell’Iraq. Penso alle tensioni guerriere che attraversano la Palestina, il Libano, l’Egitto. Penso all’oscenità di Gaza. Oggi Egeria non potrebbe ripetere il suo pellegrinaggio.

(questo articolo è apparso sul numero di dicembre della rivista Combonifem, rivista delle suore comboniane)