sabato 31 agosto 2013

I giorni di Aliano/A Sud di nessun Nord, prove di 'comunità provvisoria'

A Sud di nessun Nord

Arrivo ad Aliano. La mia attenzione è sul paesaggio. Scavalco calanchi imponenti. Non mi distraggo, cambio solo punto di vista. Guardo. E quasi mi ritrovo fuori strada. Un ponte nuovo su un vuoto di terra. Mi diranno che il vecchio ponte se l’è portato via un’alluvione poco più di dieci anni fa. Entro in paese sul crinale dei calanchi.

La scalata dei calanchi

E qui tutto accade in fretta. Arrivo e mi ritrovo la macchina colma di poeti, musicisti, cantanti. E il figlio di Franco Arminio. Solo che non me lo dicono, devo aiutarli a raggiungere uno strano corteo. In cinque minuti, Donato mi racconta che è un avvocato senza cause da dibattere, ha una fidanzata russa che gli rattrista il cuore e qualche terreno fra i calanchi. Mi dice che vive a Salerno, ma torna spesso al paese. Mi dici la verità, Donato? Sulle terre fragili dei calanchi scoprirò che sei un poeta potente. La Punto rossa, vecchia di 160mila chilometri, diventa navetta: la processione, laica e sacra, dei calanchi si era ‘dimenticata’ degli artisti. Certo, questi giorni di Aliano, di festa di una comunità provvisoria, sono anarchici, sgangherati e sapientemente casuali.

Processione nei calanchi


Il paese di Carlo Levi non è più il luogo dell’esilio, ma la casa di un’ospitalità. Non so se trovo giusto che questo paese sia ricordato solo con il nome di Carlo Levi, questo è un paese….


Franco Arminio ha una maglietta rossa con il viso di Rocco Scotellaro.





Gaetano Calabrese

Roberto Leone


Pino

Corteo per i calanchi. Panorami da estasi. Erosione di terra, architetture della natura. Una bandiera bianca in testa al camminare di qualche decina di persone, una luna che davvero sorge sopra i calanchi. L’organetto di Alessandro guida la processione. I poeti sono ai piedi delle piramidi frananti. Mi sorprende la voce lenta e robusta di Mimmo Brancale. A notte mi offrirà J&B. L’avvocato, invece, si trasforma in un cantore dal cuore grande e da parole che sanno di musica. Poeti della Sicilia, poeti della Lucania, poeti dell’Irpinia. Un ragazzo arriva dalla Calabria. Voci che rimbombano, calanchi che fanno da cassa sonora. Appare Caterina (a lei ho dato il passaggio e si è contorta nella mia macchina) e la sua voce racconta un lamento e una gioia ai confini fra terra e cielo. Poi, bambini e adulti scalano l’ultima vetta dei calanchi. Forme che cambiano. Si pianta la bandiera della comunità in cima. Starà lì. Franco spiega: ‘Questa è una festa sull’orlo, un incontro sul margine’. Esercizi obbligatori di paesologia. Mi chiedo cosa vuol dire. Mi piace. Mi basta?


Prima della scalata dei calanchi


Penso che se continuano a scalare i calanchi, ci rimarrà ben poco di queste costruzioni così delicate.

La voce di Claudia Fofi è un eco dei calanchi: ‘La mia valigia non può essere leggera perché dentro la mia vita intera’.

Mi piace un fotografo, dall’aria malinconica, che si distrae mentre sta fotografando. Rinuncia allo scatto. Raccoglie sassolini.

Franco spiega che un tempo l’imbocco dello stradello che si perde nei calanchi era diventato una discarica. Il paesaggio, oggi, è stato restaurato.

Il ragazzo più smaliziato del paese si è comprato scatole di birre, bibite e acqua. Ha caricato un furgoncino e ora lo ha sistemato fra i calanchi. Vende beveraggi.

Caterina

Partecipa il paese? Livio, il figlio di Franco, mi dice che qualcosa è scattato. Bambini e vecchi appaiono incuriositi. Qualche ragazzo insegue la processione fra i calanchi gettandosi in discesa con la bicicletta. In realtà nelle notti di Aliano solo tre paesani si intrufolano nella comunità di forestieri.

Buffet nella locanda diventata celebre per la storia di Carlo Levi. All’abbufet la comunità ha disequilibri: pizza e frittelline rompono, per un istante, fratellanza. Si sgomita per conquistare un piatto di pasto. I ragazzi di Tricarico occupano la prima fila. Il vecchio Infantino conosce le regole: ‘Se non ci si muove, qui non si mangia’. Si entra al buffet con un tagliandino. Senza merito e senza averne diritto me ne se sono trovato uno. Afferro, ancora senza merito, un pezzo di pizza morbida. I buffet sono sempre la cartina di tornasole che un altro mondo non è possibile. Non siamo abituati a dividere risorse scarse. Parlo a lungo con un poeta di Melfi. Forse è lui che parla con me. Io sto in silenzio.

Piazetta PaneVino

Poi è la notte. Ancora Caterina (è Caterina Pontrandolfo) e la sua voce. Alle sue spalle le donne e gli uomini delle case della piazza stanno seduti sui gradini. Ascoltano. Si godono la strana notte. Piazzetta Panevino è una geometria irregolare di gradini, muretti e terrazzi. Bel palcoscenico. Caterina rende melodica una tarantella e canta la Madonna del Pollino.
Antonio Infantino ritrova i miei anni fiorentini. Lui apparve a Firenze con chitarra battente, cupa-cupa e tamburelli negli anni dei Beatles e dei Rolling Stones e noi ragazzi scoprimmo così che c’era un’altra musica. Ho il primo long-playing dei Tarantolati di Tricarico. A settanta e passa anni, Antonio non è cambiato: istrione, superbo, autoreferenziale, grandissimo, folle, intrattabile. Brutto carattere, delirante, avvolto in uno shamma etiopico, le bollette della luce non pagate, la solita giacca di velluto a coste. Ma la sua non-musica è irresistibile. Sul palco, che palco non è, Antonio si trasforma, lascia il suo scoraggiamento e la sua malinconia insopportabile e trascina piedi, gambe, stomaco e cuore in un ballo di entusiasmi. I ragazzi con tamburi e cupa-cupa sono scenografia perfetta. Il vecchio Agostino rimbomba il suo tamburo da pace. Antonio mescola Kandinskij e gli sciamani, la Taranta Nera e Lucy, Pitagora e papa Benedetto… I poeti di Aliano entrano nel suono rimbombante dei nuovi Tarantolati. La voce di Mimmo, la furia dell’avvocato e un altro ragazzo donano un ritmo di ribellione a una musica ribelle.

Antonio Infantino

Peppe Lanzetta

Camillo legge il Quinto Canto

Rocco Papaleo

Daniele dalla Calabria


E poi i poeti. Camillo che legge il Quinto Canto della Divina Commedia e strappa bellezza. E Peppe Lanzetta è un grido. La chitarra lo insegue. Non avevo mai visto Peppe. Se lo incontrassi di notte nella sua Scampia, girerei alla larga. Testa senza capelli, occhiali tirati sulla fronte, uomo massiccio, fisico da lottatore, pancia robusta, corpo che si staglia sulla maglietta, braccia da portuale, pantaloncini al ginocchi. E la voce che è un incanto che travolge. Biagio Guerrero (non sono affatto sicuro di scrivere bene i nomi) sussurra la sua Sicilia. Gaetano Calabrese diffonde poesie con volantini. Ne vuole leggere una di settanta versi. Deve limitarsene a venti. Una donna, ben vestita (in una sfilata di uomini che indossano abiti da periferie in estate), viene da Terlizzi E dice: ho vissuto a Napoli, in Romagna, sono italiana. Ha voce leggera, non tuona come Beppe, ma le sue parole scalfiscono la nostra pelle.

Una bella notte.

Franco Arminio


Mimmo mi incontra nel corso del paese. E’ tempo di un J&B. Sento calore. Da quanto non bevevo un whisky? Guardo le ombre dei calanchi. Mimmo si è messo in un angolo di paese da cui si vede la luna.

Ascoltare Dante

Dormo a Sant’Arcangelo. Michele Tabacc è l’albergatore. Da venticinque anni. Non capisco una parola di quello che dice. Al primo impatto mi era sembrato irreale. Albergo splatter. Figlio di un terremoto. Termosifoni staccati, coperte con i buchi, ruggini sulle tende del bagno, porte che scricchiolano. Albergo di vuoti e stampe alle pareti.  Alla fine decido che Michele mi piace e anche il suo albergo che si chiama Gattopardo. ‘Mio fratello lavora nel cinema’, mi spiega Michele. Dormo sotto un manifesto dove Claudia Cardinale balla con Alain Delon (o era Burt Lancaster?).


Il Sud sa dare entusiasmi.

mercoledì 28 agosto 2013

Luoghi di resistenza (in)consapevole/Muro Leccese, il barbiere che vende giornali

Il negozio di Mario

Cercavo il giornale e ho trovato il barbiere. Le locandine appese fuori dalla porta che si affacciava sulla piazza non potevano ingannarmi: lì stava l’edicola del centro di Muro Leccese. Entro e faccio un passo indietro: in un bel caos organizzato, ci sono due sedie da barbiere, vecchie di qualche decennio. Esco e controllo che non ci sia un’altra porta. No, ho davvero trovato il luogo perfetto, un barbiere che fa anche l’edicolante. E non solo: questo è un drugstore americano al centro del Salento. Mario accetta anche le giocate al lotto e alle varie lotterie…un barbiere-edicolante-ricevitoria. Un barbiere dalla tosse perenne, colpa delle troppe sigarette fumate. E’ in pensione da sei anni, Mario, che di anni ne ha sessantaquattro e che ha lavorato ogni giorno che Dio ha messo nella sua vita. E quindi non vuole smettere. Solo che ora chiude quando non ci sono estrazioni del lotto. Altrimenti, mai un giorno di ferie. Nemmeno al lunedì perché c’erano i giornali. Devo essere allegro o malinconico per questa storia di lavoro perenne in cui mi sono imbattuto in uno strano agosto? Queste storie di libertà negata dal lavoro mi lasciano sempre addosso il senso di uno spreco, di una fatica eccessiva, ma così non deve essere, Mario è felice della sua vita. Credevo che fosse burbero e infastidito dalle mie domande. Non è così: a monosillabi, con poche parole, racconta…e bisogna ascoltarla questa storia normale. Perché questa bottega è destinata a chiudere. I figli di Mario non faranno né il barbiere, né l’edicolante. La figlia ha preso due lauree e lavora in posta. Il figlio fa il barman e studia a Urbino. Fine di una dinastia.

Le 'macchinette' e le spazzole


Licenza antica, quella di Mario Cogli. La famiglia ha sempre avuto la tradizione del doppio lavoro. Il bisnonno era barbiere. Lasciò il mestiere al padre di Mario e ai suoi fratelli. Ma, in quegli anni lontani, a Muro Leccese andavano in pochi a farsi i capelli. E così la bottega apriva solo nel pomeriggio: al mattino i Cogli facevano i serratori. Squadravano la pietra leccese. Solo nel dopoguerra, il padre decise che era tempo di metter su un vero salone. In via Salentina. E comprò, ‘fece sacrifici per poterselo permettere’, un vero specchio. Fu sfortunato: nel montarlo alla parete cadde e si aprì una ferita nel vetro. Il padre si ribellò alla malasorte e chiese a un pittore celebre del paese di disegnare un filo di fiori per nascondere il taglio. Lo specchio è ancora lì. E il fiore si inarca sullo spigolo del vetro e ricalca la vecchia cicatrice.

Il barbiere e l'edicola
Guardo affascinato gli antichi rasoi, le vecchie macchinette per pareggiare la barba, le lozioni, i pennelli da barba, il phon….non posso tagliarmi la barba due volte in un anno, non lo faccio. In agosto, Mario si concede il lusso di chiudere tutti i pomeriggi e alla domenica, porta chiusa alle undici del mattino. Ha cominciato a fare i capelli che ancora andava alle elementari. C’era anche il fratello. Ma poi lui ha vinto un concorso all’Enel e la bottega non sfamava due famiglie. Scopro il trucco dell’edicola: il padre aveva una plurilicenza, vendeva già giornali e profumi. Tradizione di famiglia. E Mario è stato un buon barbiere: è arrivato più volte a finali di gare regionali.



Il barbiere-edicolante Mario
Rimango in negozio ad aspettare clienti. Entrano a comprare giornali (il Quotidiano o Tuttosport) e cartelle del lotto. Un forestiero si prende il  Sole24ore. Nessuno si ferma sulle due sedie della bottega da barbiere.

Lo specchio, il fiore e le forbici


Questa è una storia di poche parole. A Mario sono rimasti clienti anziani. Vecchi amici. ‘Non mi sono tenuto alla moda. Un ragazzo qui non viene’. E se il taglio deve interrompersi perché Mario deve anche vendere un giornale, non ci sono problemi. ‘Lo sanno, si sono abituati’. Entra un uomo grosso e allegro, sudato sotto la sua maglietta grigia: ha un secchio di fichi grandi e tondi. Me ne offre uno. E’ dolcissimo.

L'uomo dei fichi





lunedì 26 agosto 2013

Gli ossari di Taranto


La targa della Maledizione al quartiere Tamburi
Cielo d’estate sui due mari di Taranto. Mi chiedo da che parte spiri il vento: so che se viene da Nord e da Nord-Ovest respirerò le polveri di ferro e veleni dell’Ilva. Se, invece, è scirocco, toccherà a quelli di Statte di avvelenarsi. Il mare è azzurro-intenso. Mi appare splendente e bellissima la città più inquinata d’Italia. All’ingresso del Borgo Vecchio attorno a una fontana, lastroni di cemento sono un omaggio all’acciaio. Taranto ha venduto l’anima alla fabbrica. 


Le case di Tamburi
Vincenzo ha 56 anni e un lavoro abusivo. Da più di venti anni, tiene le pulizie di tombe del cimitero di San Brunone, il cimitero di Tamburi, il quartiere ‘sopra’ il quale sono state costruite le ciminiere dell’Ilva. Gira per il cimitero con secchi, stracci e scope. La gente gli affida il decoro della memoria dei propri cari. Ci sono confraternite, congregazioni, associazioni che si organizzano per assicurare sepolture e loculi ai propri iscritti. 




Le ciminiere e il cimitero
Vincenzo ci guida verso gli ossari. Mi appaiono come condomini mortuari, sono palazzine a più piani che segnano il confine fra il cimitero e l’Ilva. Vincenzo ha le chiavi di uno di questi caseggiati per morti. Tre piani, saliamo in ascensore, ancora una rampa di scale, una piccola porta ed ecco il tetto. Balcone privilegiato sulla fabbrica. Belvedere sulle colline di un pianeta ostile. E’ un cratere quanto sta sotto i nostri occhi, è una innaturale attività vulcanica. ‘Benvenuti in Paradiso. Ecco Taranto Beach’, dice Vincenzo e si gode la sorpresa disegnarsi sul nostro viso. E il panico. ‘Vi ho portato in un bel posto, no?’. Una strada, una cortina di alberi malati e si alzano le montagne di polveri ferrose annaffiate da getti di acqua. Troppo facile scrivere: questo è un gioco dell’inferno. Chi si è inventato il nome di ‘parchi minerari’ per questo paesaggio feroce? 


L'Ilva visti dagli ossari
Questo è il panorama migliore che si possa avere al mondo sul progresso. La sua bellezza crudele è perfetta: un cromatismo di morte, i camini a tinte circolari, la nuvola di polveri, l’intrico di nastri trasportatori, i macchinari gialli che si stagliano sulla ruggine. Un paesaggio deserto con scrosci d’acqua a combatterne l’aridità inerte. A cercare vanamente di fermare le polveri. Dovrebbero fare visite guidate notturne ai tetti degli ossari del cimitero: la notte l’Ilva è uno spettacolo, i fumi arrossano il cielo, si attorcigliano attorni agli altoforni, la produzione non si arresta, macina i suoi profitto, i suoi salari e i suoi veleni. Questa è una sovraeccitazione industriale. Ne capisco la meraviglia e la paura. 


Tamburi
Le case di Tamburi sono a quattrocento metri da questa caldera dai vapori di peste. La targa della ‘maledizione’ degli abitanti di queste case avvelenate è appena fuori la rete in cui qualcuno sostiene si dovrebbero impigliare le polveri della morte lenta.
Vincenzo guadagna dieci, quindici euro al mese a tomba. ‘Devo pur far mangiare la famiglia’. Il figlio fa il finanziere al Nord. ‘Almeno lui se ne è andato da questa città che si è inginocchiata di fronte a dei farabutti’. E’ arrabbiato, Vincenzo. Passa le dita su una lapide di marmo. Le sue dita si sporcano di grigio. ‘L’ho pulita mercoledì scorso. Oggi è lunedì. Nei giorni di vento è inutile affannarsi: pulisci al mattino e al pomeriggio è già tutto ricoperto di polveri’. Il cimitero, come il quartiere di Tamburi, ha una patina rossastra. Deve essere esserci un’ordinanza comunale: quasi tutte le case hanno tinte aranciate. Per non far vedere i rivoli di polvere, gli sbaffi di ruggine, il deposito di anni di metalli pesanti. I marmi delle tombe hanno cambiato colore. Marmo rosso di Taranto, dunque. Un Cristo alza le sue braccia quasi a benedire (o maledire) l’orizzonte delle ciminiere.





Polverino al cimitero di Tamburi



La mano e il polverino




















I miei amici vanno in cerca delle fontanelle del cimitero. Mi dicono che sono state pagate dall’Ilva. ‘Ci siamo venduti per un piatto di lenticchie’. Hanno una foto che mostra il sindaco orgoglioso del suo successo. Vogliono scattare una nuova immagine.
Per mesi, non si sono seppelliti i morti a Tamburi. Troppo inquinata la terra per essere rimossa dai manovali. A Tamburi i bambini non possono giocare nelle aiuole e nei giardini. Troppi veleni nelle sabbie. Qui crescono solo erbacce che l’estate ha spossato in una sterpaglia oscena. I quartieri sono ‘stecche’ di abitazioni a parallelepipedo. Mi ricordano le peggiori città della Romania di Ceausescu.



Il Cristo che benedice l'Ilva
C’è un Cristo che benedice i camini dell’Ilva. Nemmeno il più spudorato realismo sovietico avrebbe potuto pensare a un Gesù immenso, in piedi su uno svincolo stradale. Sarà alto dieci metri e fa parte del colossale mosaico all'interno della chiesa di San Leonardo Murialdi, ottocentesco prete torinese (leggo che si battè per il riposo festivo, contro il lavoro dei bambini, per la giornata lavorativa di otto ore). Mi raccontano che il restauro di questa chiesa, grande  e vuota come un transatlantico spiaggiato, è stato pagato dall’Ilva. Dietro l’altare Cristo davvero ha sguardi di benevolenza verso la fabbrica. Alza le braccia in un segno di pace. Lo osservano, devoti e intimoriti, un marinaio, un operaio con casco, un manager, un muratore. Un pescatore sbroglia le sue reti. L’unica donna dell’affresco è di ritorno dal mercato con la sporta dei pesci. Chi ha concepito questo mosaico alto venti e più metri, dal cielo dorato?

La lapide della maledizione è a duecento metri dal Cristo della benedizione.







Tamburi