lunedì 30 aprile 2012

Zeri/La solitudine di Bosco


Il paese di Bosco


Bosco è la frazione più lontana di Zeri. Strano gioco dei nomi. Mi raccontano che un tempo questo paese era il rifugio introvabile di briganti inafferabili. La strada per raggiungere Bosco è minacciata da diciotto smottamenti. Massi e fango ne sbarrano il cammino. L’acqua maledetta dello scorso ottobre ha portato via case e cantine. Bosco si trova sulle sponde fragili di un torrente. 

La strada per arrivare a Bosco

Bosco è un luogo strano. Le sue case non appaiono abbandonate. Sono ben curate. Molte restaurate da pochi anni. Sono stati i ‘francesi’, mi spiegano. Qui, nei primi anni del dopoguerra, abitavano ancora seicento persone. C’erano le scuole a Bosco. Poi, nel 1964, è arrivata la strada e l’asfalto è stato uno scivolo verso il fondovalle. I montanari di Bosco sono emigrati in Francia. A Bonville. A La Roche. A vendere immagini sante. Madonnine in gesso. Oggi, immagino, fanno altro. Ma non hanno dimenticato il paese. Nessuno ha venduto la casa di famiglia. In tanti, ogni estate, tornano. E così il paese più lontano ha una sua vita immaginaria e reale. La chiesa, la grande chiesa, è sempre aperta. In agosto qui si parla francese.

Giulio e i suoi amici attorno alla stufa


‘Vivremo quattro, cinque anni di meno senza quella strada che conduceva ai boschi’. Giulio ha occhi di malinconia e 87 anni. Mi ha aspettato accanto alla stufa. In una sorta di ‘stanza comune’ del paese. Oggi a Bosco vivono 28 persone. L’alluvione di ottobre ha portato via la carrareccia che si inerpicava nei boschi. Giulio là aveva un nascondiglio. Una casa di pietra. Mi dice che, grazia a una dinamo, era riuscito ad avere la luce. Vi abitava per mesi assieme alla moglie. A sera si riusciva a guardare perfino la televisione in quella beata solitudine. Di giorno, nelle stagioni, andava in cerca di frutti di bosco, di funghi, di legna. 

Giulio ricorda la povertà. ‘La miseria’, dice. ‘Mio padre andò in Francia a vendere madonnine e, ogni tanto, mandava centesimi a casa’. Giulio ha avuto le prime scarpe solo il giorno in cui si è sposato. Campavano del bosco, quasi non sapevano cosa fossero i soldi. Si tagliava la legna per gli inverni, si mangiavano mirtilli e ciliegie, seminavamo patate e fagioli. Dovevano essere più veloci degli uccelli. ‘Le castagne ci hanno salvato dalla fame. Se c’era qualcuno che stava male, si scendeva a Pontremoli a comprare un po’ di carne. Si tornava in su, un giorno di cammino, e magari l’ammalato era morto. Mangiavano la carne, allora’.

Giulio


‘Prima della guerra riempivamo i calamai della scuola con il petrolio e così avevamo un po’ di luce alla sera’.

E’ stato con i ribelli, Giulio. Sui crinali delle montagne. Ha combattuto con i partigiani. Queste terre erano lontane, i nazisti non riuscirono a stanarli, c’erano anche paracadutisti inglesi. ‘Furono mesi di fame e paura’, dice Giulio. I tedeschi e le camicie nere si vendicarono sulla gente rimasta nei paesi.

Il torrente ha portato via le case


‘Doveva esserci il diavolo sotto le acque quando il fiume ha portato via case, cantine e alberi’. Non è più possibile raggiungere la capanna di Giulio. Quest’anno non andrà a funghi. Né raccoglierà frutti di bosco.
Zeri, 18 aprile




sabato 28 aprile 2012

Eritrea/Macbeth ad Asmara


Isaias Afewerki (da www.agoravox.it)


Da qualche giorno arrivano telefonate dall'Africa. Sono riapparsi i vecchi amici degli anni dell’Eritrea. E la rete moltiplica le voci. A volte azzera le incertezze. Ognuno vuole credere alle sue speranze. Le parole degli amici sono eccitate: ‘E’ morto Isaias Afewerki’. E’ morto il tiranno. L’uomo che ha mandato in rovina il sogno di un piccolo paese libero. Il comandante militare che ha tradito il sogno di Davide: una volta sconfitto Golia, ha imprigionato, ucciso, fatto sparire i suoi fratelli e compagni di lotta.

Non so, mentre scrivo, se Isaias sia morto davvero. E’ sparito di circolazione. Raccontano che non si vede più a quasi un mese. Forse è ricoverato in Qatar (vanno tutti in Qatar in questi mesi). Forse ha un tumore al fegato. Il ministro dell'informazione eritreo, Alì Abdu, smentisce con decisione: 'E' in ottima salute. L'ho incontrato questa mattina. Non viene in televisione perchè non vuole dare soddisfazione a chi mette in giro queste voci'. Altri giornali parlano già di un governo a interim. Asmara come la Mosca di Breznev, insomma. O la Spagna di Francisco Franco. Il tempo sarà galantuomo.

Asmara


Da tempo si parlava delle precarie condizioni di salute di Isaias. In realtà se ne è sempre parlato. Ricordo quando, alla vigilia dell’indipendenza del paese, un’altra malattia, una malaria celebrale, lo costrinse a sparire. Smentite, conferme. Alla fine riapparve e oggi ci sono le foto del suo ricovero in un ospedale degli Emirati Arabi. In venti anni l'Eritrea non è stata capace di formare medici capaci di assistere il proprio presidente.

Quelle che sembra certo, nella ridda di voci, è che una tirannia sta per finire. O, quanto meno, ci sia una cupa aria da resa dei conti ad Asmara. Se ne ha da tempo la sensazione. Le storie umane hanno una fine. 

1993, festa per la libertà dell'Eritrea


Per anni e anni ho vissuto la speranza dell’Eritrea. Mi sono aggrappato alla speranza dell'Eritrea anche nei durissimi anni '80 del secolo scorso. Ho incontrato Isaias quando era un capo guerrigliero e nessuno gli riconosceva qualche possibilità. Era un comandante. Lo avvertivi. Altissimo, bello, saggio, carismatico. Tutti i giornalisti ne erano affascinati. I suoi uomini lo adoravano. Stava guidando il suo popolo verso una impossibile libertà. Ricordo il suo sorriso quando proclamò l’indipendenza del suo paese. Ricordo la corsa dell’ambasciatore italiano al riconoscimento ufficiale del nuovo stato africano. Ricordo l’ammirazione che lo circondava. I diplomatici lo rispettavano. Ci siamo incontrati molte altre volte. Anche quando si avvertivano scricchiolii nella sua Eritrea.

Poi, la follia. 1998. Una nuova guerra con l’Etiopia. Nel 2000, dopo centomila morti, una tregua che, da dodici anni, non riesce a trasformarsi in pace. Un paese schiacciato da quegli uomini che lo avevano liberato. Una storia fin troppa conosciuta. Isaias, nel 2001, ordina l’arresto dei suo fratelli di lotta. Gli uomini che avevano combattuto al suo fianco scompaiono dieci giorni dopo il crollo delle Torri Gemelle. A chi poteva interessare, allora, il loro destino? Da allora non se ne è saputo più niente. L’Eritrea si chiude a riccio. Diventa una Corea del Nord africana. I suoi ragazzi cominciano a scappare. A centinaia e centinaia muoiono nel disperato tentativo di attraversare il Sahara e il Mediterraneo. Stanno ancora morendo: in Libia, nel Sinai, in Sudan. L’Eritrea è un incubo dimenticato.

Il cinema Impero ad Asmara


In questi mesi c’è aria da dramma finale in Corno d’Africa. Gli equilibri si scompongono nell’Africa a Sud del Sahara. E’ l’ombra lunga delle primavere arabe. L’Etiopia ammassa uomini e armi lungo la frontiera dell’Eritrea. Aspetta un pretesto. A marzo attacca ‘basi terrorostiche’ in Dancalia. Asmara non reagisce. Sa che non potrebbe resistere a un’offensiva etiopica. I giochi si accelerano. Sulla frontiera fra i due paesi ci sono troppi interessi. Multinazionali canadesi, indiane, cinesi, australiane stanno cercando e già portando alla luce potassio e oro. Forse petrolio, forse ‘terre rare’, forse litio. Bisogna chiudere le storie di guerra. Ora è tempo di business. L’Etiopia sta vendendo le sue terre. Quest’Africa sbanda sotto l’urto di un nuovo, moderno colonialismo. Le ribellioni arabe sono davvero un’onda che scuote anche il mondo africano. Dal Mali della rivolta tuareg alla prima guerra fra il Sud e il Nord del Sudan. Storie vecchie. Sangue vecchio che chiama sangue nuovo. E ora il tempo di Isaias sta finendo. Gli amici mi raccontano di ribellioni nelle città eritree, di arresti di uomini di potere ad Asmara. Niente che io possa verificare. Niente che non possa essere smentito nel giro di poche ore. Al solito: nessun giornalista può raggiungere Asmara.

Le donne di Asmara


Io rimango con una nostalgia lontana. Quella di un rifugio sotterraneo a Nakfa, capitale dell’Eritrea liberata. Storie di mille anni fa. C’era la guerra allora. Ma i capi eritrei erano giovani e sognavano un futuro. Avevano desideri ingenui: tornare a ballare in un certo bar di Asmara. Ricordo Chew Chew, una giovane guerrigliera. Era la mia scorta. Era una ragazza timida. Si scherniva quando cercavo di fotografarla. La reincontrai molti anni dopo in un ufficio governativo. Aveva smarrito il suo sorriso. Aveva addosso malinconia. Intuiva che il sogno si era già spezzato. Io non lo capii. Non volevo vedere. Oggi, forse, muore Isaias, l’uomo che, per molti eritrei e per chi lo ha conosciuto in altri tempi, ha tradito. Spero che qualcuno di coloro che è scomparso nelle sue prigioni riappaia. E’ difficile ricostruire i sogni. Ma la gente dell’Eritra dovrà provarci ancora una volta.
Sella, 28 aprile


1, dopo aver scritto: E poi, Isaias decide che è tempo di apparire in televisione. Un video alla Tv di stato. 'Sono andato all'estero per lavoro e ho viaggiato nel mio paese', ha spiegato. Nessun altro commento. Si aspetta. 

2. Le foto di questo post sono nostalgia. Ricordano gli anni lontani della libertà di Asmara e dell'Eritrea.

giovedì 26 aprile 2012

Zeri/Il dilemma della neve


I faggi al passo dei Due Santi


Montagne fragili. Crinale dell’Appennino. Per tutta la mattina, non passa una sola macchina. Il tempo cambia come in una stagione tropicale. Pioggia a catinelle, sole improvviso, prati che risplendono, poi le nuvole si trasformano in nebbia. Venti freddi. Facile a dire: nessuno cura più i muretti, i canali delle acque, i bordi dei campi. La terra, abbandonata, frana. E porta via strade, pascoli, piccole massicciate. Un inverno dopo l’altro. Crolla il tetto di una cascina e nessuno lo rimetterà a posto. Terre lontane, quelle di Zeri. La gente della montagna vi si aggrappa. Qualcuno è tenace.

Il piazzale al passo dei Due Santi
Il villaggio al passo del Rastrello


Vado al passo dei Due Santi. Frontiera fra Toscana ed Emilia. L’asfalto finisce in un immenso piazzale deserto. Fra i faggi scende solo una strada bianca. Salgo verso una modernità che già è diventata abbandono. Anni ’70, altro secolo, quaranta anni fa. Tardo Novecento dell’Appennino. Allora, Zeri scommise su un’economia da turismo invernale. Sperava nell’eternità della neve. Il futuro era una stazione di sci a 1398 metri. Nessuno immaginava cambiamenti climatici. E così su questa frontiera vengono costruiti una seggiovia,  due skilift,  ottanta metri di tapis-roulant. E ancora: un ostello, un bar, un negozio di sci, un ristorante. Mi dicono: anche due campi da tennis. Viene asfaltato un piazzale da mille auto. Poi, non contenti, ecco un palaghiaccio (senza ghiaccio; usato, qualche anno fa, solo per una festa della birra), una vasca per produrre neve artificiale (mai funzionato). Il nome è da marketing di mezzo secoli fa: ZumZeri. Pista per famiglie. Per la gente del fondovalle. Per chi sale da Massa, da Spezia, da Parma. E poi si costruisce anche un villaggio di 152 case. Che qualcuno pensava anche di raddoppiare. Il villaggio Aracci è la frazione più grande del comune di Zeri, una sorta di condominio alpestre di villette deserte per lunghi mesi. Al vicino passo del Rastrello, crinale con la Liguria, si fa altrettanto: 52 villette di montagna.

Il cartello di benvenuto a ZumZeri



Il PalaZum, il palazzo del ghiaccio

L'interno del PalaZum


Salgo a ZumZeri. E trovo il cartello di benvenuto a pezzi. Il PalaZum, il palazzo del ghiaccio, è un grande capannone da area industriale sorto fra i faggi. Desolato e inutile. Funziona da deposito per i sedili delle seggiovia.
Quest’anno vi è stata neve per dieci giorni. Il ristorante e l’ostello hanno chiuso prima della fine dell’anno e nessuno ha mai più provato ad riaprirli. Sono da neorealismo gli scivoli abbandonati, i giochi per bambini immalinconiti, un cannone per la neve che sta arrugginendo, rottami sparsi come dopo un disastro. Saracinesche mal chiuse. Vetrate che lasciano intravede sale vuote. In questi mesi di primavera appenninica c’è aria di desolazione al passo dei Due Santi.

Cannone sparaneve
Il parco giochi di ZumZeri


Questa stazione da sci non avrebbe potuto nascere. Il crinale non era terra del demanio. Ma era ed è ‘proprietà collettiva gravata da usi civici’. E’ terra dei cittadini di Zeri. Non poteva essere venduta, né lottizzata. Forse, negli anni ’70, nessuno lo immaginava. La Regione Toscana ha atteso la fine degli anni ’80 per regolare gli usi civici. Nel frattempo lassù si era già costruito, venduto, affittato. La neve, allora, era un miraggio dorato. Per venti anni ZumZeri ha dato lavoro a sei persone. Raddoppiavano nei mesi invernali. Poi fallimenti su fallimenti. Cattive gestioni. Gare di concessione andate deserte. Milioni gettati al vento. Infine anche la neve si è stancata di cadere su queste montagne.

Oggi nella campagna elettorale per il sindaco (qui si vota il sei maggio come in Francia e in Grecia), i candidati si rifugiano in un buon proposito: ‘Rilanciare ZumZeri’. Nessuno, mi sembra, dice che cosa ne vuol fare del PalaZum. Solo per abbattere quanto di abusivo è stato costruito occorrono 70mila euro.

Le nuvole stanno salendo verso il crinale. Si sfilacciano in nebbia gelida. Sale una macchina dei carabinieri. La sola che ho visto passare. La modernità, qui, solitario crinale degli Appennini, ha lasciato i suoi detriti.
Zeri, 17 aprile

lunedì 23 aprile 2012

Zeri/Le Signore degli Agnelli





Al mattino, al bar di Lina, a Coloretta, si fermano gli uomini. Stanno quasi in cerchio. Allungati sulle sedie. Le mani in tasca. Abiti pesanti. Maglioni. Giornata di lavoro davanti. Entro e mi sento gli sguardi addosso. Rompo il silenzio. Il brigadiere, senza divisa, mi offre caffè e schiacciata (che qui, alla genovese, chiamano focaccia). La sola donna, Lina, è dietro al banco. 

Valentina


Ma poi Valentina, 32 anni, donna-pastore, mi dice: ‘La nostra società è matriarcale’. Sono andato a trovarla nella stanzetta caseificio infrattata nel labirinto di vicoli del paese di Noce. Ha ragione, Valentina. Gli uomini, in queste vallate zerasche, alta Lunigiana, Toscana di frontiera, vanno a lavorare. Lontano. A Pontremoli, a Spezia, a Genova. I più fortunati tornano al paese solo a sera. A casa, in montagna, rimangono le donne. Sono loro a star dietro agli animali. Alle mucche, ai cavalli. Ai greggi delle pecore zerasche. Rese celebri, dodici anni fa, da Slow Food. Per questo le donne delle valli, giovani e toste, sono diventate ‘le signore degli agnelli’. Fu Davide Paolini, giornalista del Sole 24 Ore a trovare questo ‘logo’ intrigante. Il giornale della Confindustria e le donne-pastore dell’Appennino più lontano: strana alleanza mediatica.

Cinzia


Al mio primo giorno fra le valli, Cinzia, 42 anni (in lei Paolo Rumiz, viaggiatore di ‘Repubblica’, vide una ‘morbidezza ciociara’), mi costringe (felicemente) a un continuo saliscendi per una scarpata. Un capretto è scomparso. La madre bela disperata. Deve essere nato nella notte, ma non si è attaccato alle tette. Forse la capra lo ha nascosto in un rovo. Non lo troviamo. Saliamo e scendiamo per quasi tre ore. La voce di Cinzia si incrina. So che è tornata su nel pomeriggio. Da casa scruta la collina con il cannocchiale.

Anche gli occhi di Valentina sono affranti. Non si trova un agnello. A sera non è tornato alla stalla. Non si dà pace. L’ha cercato nella notte. Il gregge ha saltato un recinto e lui si è perso. E’ piccolo, non può stare fuori due notti. Non è stato facile parlare con Valentina: una mattina era alle prese con il parto di una mucca, il giorno dopo la sua schiena ha ceduto per la fatica delle ricerche notturne. Le sue parole tornano di continuo sull’agnello perduto.

Patrizia


Patrizia, 39 anni, invece, mi regala un’emozione: corre sua madre, l’avverte che la pecora sta per partorire. Andiamo di corsa. E’ il primo parto dell’animale. Patrizia l’aiuta, la incoraggia, vorrebbe che si stendesse: l’agnello è messo bene, la nascita è improvvisa, scalpita fuori in una bolla di sangue. La pecora quasi se ne disinteressa, ma poi Patrizia le avvicina il figlio e lei lo lecca con cura. Patrizia è in piedi dall’alba. E la sua giornata è ancora lunga. Lunghissima. Finirà a tarda notte.

Il nuovo agnello


Cinzia aveva studiato come restauratrice. Liceo artistico. Lontano dalle sue montagne. Poi i solventi minarono la sua salute e le montagne divennero qualcosa di più che un rifugio. Anche Patrizia voleva avere a che fare con l’arte. Poi ha fatto ragioneria, giù a Pontremoli, ma non appena tornava a casa correva, con il padre, in mezzo alle pecore. Valentina a venti anni aveva già una figlia, un marito in ferrovia e un lavoro da un marmista a Pontremoli. I nonni volevano vendere il gregge. E lei ha deciso di tornare in montagna. Avrebbe fatto la pastora. I suoi greggi stanno nel bosco. Nelle montagne più alte di Zeri.

Sono belle, le Signore degli Agnelli.
Zeri, 16 aprile

venerdì 20 aprile 2012

Zeri/Settantasei tornanti

Chiesa di Rossano



Dopo i primi chilometri, conto i tornanti. Salgo per quindici chilometri. Settantasei tornanti. L’acqua si porta via la terra. I muretti franano. Passo da Arzelato, la strada ‘principale’ è interrotta da più di venti giorni. A volte si fanno ‘gli scambi’: chi deve scendere verso valle, arriva fino alla frana, prosegue a piedi e il parente o l’amico lo aspettano al di là dell’interruzione. La strada di Arzelato è un tratturo sconnesso che si arrampica con balzi da capra. Vita quotidiana di montagna. A un’ora da Spezia. Un’ora e mezza da Carrara. Confine fra centro e nord dell’Italia. Frontiera fra Emilia, Liguria e Toscana. In queste montagne, Appennino dei silenzi, montagne bellissime e dalla vita dura, si è in un mondo a parte. Queste valli sono 'diversità'. Benvenuti a Zeri. Alta Lunigiana. Meglio: benvenuti nelle valli di Zeri. Perché Zeri, in realtà, non esiste.

Diciotto frane lungo la strada per Bosco

La strada da Pontremoli a Zero è franata


Viaggio nell’Italia fragile. In paesi che ben pochi ti raccontano. Le strade sono in frana, le chiese sono in frana. A Bosco vedo le case portate via dall'alluvione di ottobre. 'Acqua maledetta', mi dicono, ma sanno che sono anche gli uomini a non aver più cura delle montagne. Italia dimenticata. A sera leggo i libri di Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli: e vi trovo le pagine perfette per raccontare questa solitudine orgogliosa e testarda. Arrivo, scortato da un paesano, al circolo di Chiesa. Entro. Stufa accesa. Solo uomini. Dai cappelli di lana, le giacche che sanno di campi e le carte della briscola in mano. Vino aspro. Penso: sono venuto fino a qua per raccontare di donne e, al circolo, una stanza nella canonica, non ne trovo nemmeno una. Dormirò qui stanotte. Nella canonica di una chiesa chiusa. Una scossa di terremoto ha messo in pericolo le sue mura. Terra più che fragile, la valle di Zeri. So di avere addosso gli occhi degli uomini delle carte.

La valli zerasche


Vi devo una spiegazione. Zeri davvero non esiste. E’ un ‘nome collettivo’. Non c’è il paese di Zeri. Ci sono trentasei frazioni divise in quattro vallate. Qui un centesimo in più di benzina è la differenza fra la solitudine e la compagnia (questo Mario Monti lo ignora, non può nemmeno immaginarlo). Un tempo si andava a piedi. Oggi Pandina a quattro ruote motrici e pick-up per chi ha gli animali. Un solo distributore di benzina (una donna magrissima è alla pompa). A Coloretta. Hanno nomi 'indigeni', i paesi. 

Zeri, leggo in un libro erudito e bello, è Ersilia, città invisibile di Italo Calvino. Zeri esiste solo nelle relazioni (per lo più burrascose, ma profonde, intagliate nel silenzio e negli sguardi, incomprensibili a occhi forestieri) fra le gente dei paesi. Si ha memoria di risse colossali fra i contadini delle valli di Rossano e dello Zerasco. Zeri esiste solo in una ‘ragnatela di rapporti intricati’. Chissà cosa ne pensa il tom-tom quando gli dici di cercare Zeri? Già, qui la tecnologia fa bizze splendide. Per cinque giorni vivo senza cellulare, senza il web, senza il digitale terrestre. E non trovo nemmeno mezzo telefono pubblico. Non ho dietro la Lettera 22. Come ho fatto il giornalista per venti anni? Imparo nuovamente. Vado a cercare un vecchio alfabeto che avevo dimenticato.

Il circolo a Chiesa. Alla domenica


Salgo a Zeri perché la rivista Terre di Mezzo mi manda a cercare la fragilità dell’Italia. E la sua voglia di resistere ed esistere. Qui sono venuti (sono davvero venuti? Osservo il sorriso sfuggente dei contadini e ho qualche dubbio) giornalisti di mezza Italia (ma è vero: l’altro giorno qui c’erano quelli del Guardian) per raccontare una storia di donne-pastore. ‘Le signore degli agnelli’. Le donne, belle e giovani, che hanno salvato ‘la pecora zerasca’. Ci sarà tempo, spero. Ora sta spiovendo, il verde dei pascoli è abbagliante. Ho scavalcato un crinale, il cielo si fa d’azzurro. C’è aria selvatica, lontana. Odori che non conosco. Colori che non conosco. I soli rumori sono grida di contadini che vanno a cercarsi i greggi. Gli uomini del circolo mi versano vino a bicchieri da vecchia osteria. Mi mostrano salami di pecora. I paesi sono scuri, umidi, rannicchiati. Tetti neri di piagne. Le case hanno mura spesse e finestre piccole. Paese del freddo. Una delle donne degli agnelli mi prepara le coperte per il letto. Gli uomini delle carte bofonchiano per una giocata sbagliata. Si vince olio Carapelli (qui gli olivi non ci sono) e caffè Lavazza.
Alla fine i giocatori se ne vanno. Un cavallo si avvicina a curiosare. A Piagna, paese vicino, saltano le luci pubbliche. Per qualche notte, sarò l’unico abitante delle case deserte attorno alla chiesa di San Medardo.
Zeri, 15 aprile