giovedì 2 febbraio 2012

Giovanni Andrea Cornia/'La democrazia aiuta l'uguaglianza. E l'economia'

Sotto la neve. A scrivere di Maremma. Ma questa è un'altra storia. Magari un giorno ne parlerò. Ora mi viene da metter qui una vecchia intervista. Di un anno fa. Colloquio con Giovanni Andrea Cornia, economista a Firenze. Collaboratore di Amrtya Sen. Parlammo allora di 'uguaglianza' e 'disuguglianza'. Mi è sembrata di attualità. L'intervista è stata pubblicata nel libro, curato da Enrica Chiappero Martinetti, 'Politiche per uno sviluppo umano sostenibile', edito da Carocci per conto di OxfamItalia.
Al solito, scusate: troppo lunga per un blog.




Giovanni Andrea Cornia (foto di Alessandro Lanzetta)


Adesso produce anche olio dal suo piccolo podere sulla collina di Fiesole. A 63 anni, Giovanni Andrea Cornia, economista bolognese (‘tosco-emiliano’, dice), esperto di uguaglianza/disuguaglianza, appare energia pura. Difficile  inseguirlo fra conferenze negli Stati Uniti, lezioni a Oxford, consulenze di Uzbekistan, aerei da prendere, seminari da tenere, dipartimenti universitari da organizzare. Negli anni ’80, Cornia faceva parte, unico italiano, del piccolo gruppo di ricercatori, vicini all’Unicef, che cercarono di contrastare i dogmi spietati dei Piani di Aggiustamento Strutturale varati da Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale. Negli anni ’90, ha diretto il Development Economics Research di Helsinki, prestigioso istituto dell’Università delle Nazioni Unite. Fatico a seguire i suoi movimenti nel nuovo millennio: docente di Macroeconomia dello Sviluppo a Firenze e consulente di governi e organismi internazionali in Asia Centrale. Fa parte della ristretta cerchia di economisti che lavora costantemente con le Nazioni Unite. Ha avuto occhio anche con le piccole realtà locali: per qualche anno ha diretto l’Irpet, l’Istituto regionale per la programmazione economica della Toscana (e qui si è inventato l’Isut, l’indice di sviluppo umano della Toscana). Sarà per questa ragione che, probabilmente, preferirebbe parlare della qualità del suo olio che non di economie. Ma, in realtà, non è così, questo economista, girovago e instancabile, ha un ultima passione: l’America Latina. Di questa terra vorrebbe discutere. Anche perché in questo continente sta accadendo qualcosa di interessante.


Nablus

‘Sta diminuendo la disuguaglianza, ecco sta succedendo in America Latina. Con l’eccezione di Colombia e Messico, paesi scossi da conflitti con il narcotraffico, tutti i paesi di questo continente stanno vivendo una stagione di riduzione della grande disuguaglianza sociale dei decenni precedenti. E’ sorprendente. Smentendo ogni previsione pessimistica, nemmeno la crisi del 2008 ha interrotto questo processo. Il suo impatto non è stato indifferente, ma la disuguaglianza nei paesi latinoamericani ha continuato a scendere sia pure più lentamente. E questo cammino positivo è andato avanti di pari passo con il ritorno della democrazia. E’ un processo che è cominciato alla fine degli anni ’80 e si è rafforzato in maniera decisiva con i governi di centrosinistra, dal Brasile di Lula in poi’

Mi stai dicendo che il legame democrazia-uguaglianza è indissolubile?
‘Sì, senza dubbio. Abbiamo montagne di dati econometrici che lo dimostrano’.

Aiutami a capire. Cos’è la disuguaglianza in economia?
‘E’ intuitivo: si raffronta la quota di risorse ricevute dal 20% più ricco della popolazione rispetto al 20% più povero. Si cerca di capire come le risorse di un paese vengono ridistribuite  fra i suoi abitanti. Da tener presente che il consenso fra gli economisti è quasi assoluto: la crescita economica è rallentata, se non impedita, in una società fortemente disuguale’.

Cosa ha convinto l’America Latina a percorrere questa strada. La sua storia, per decenni, è stata segnata da dittature feroci, da fortissime disuguaglianze e da una stagnazione profonda.
‘Le politiche degli anni ’80, il Washington Consensus e le ricette dei Chicago Boys, sono state un’illusione e una delusione. Hanno impoverito le classi medie. Che hanno rivolto la loro attenzione a forze politiche e sociali più attente alle loro necessità. In America Latina, per anni, si è stati disattenti alla macroeconomia, si è alimentato una inflazione fuori controllo. Il disagio era visibile, concreto. Dagli anni ’90, questi paesi sono stati capaci di aprire le loro economie. Non si sono arroccati come sarebbe stato facile fare. Si sono allontanati dagli Stati Uniti, hanno trovato un grande mercato nella Cina e hanno fatto crescere un mercato interamericano. Hanno avuto un eccellente crescita, una media del 5,5%, del Prodotto Interno Lordo fra il 2003 e il 2008 e sono cresciuti gli investimenti (22% del Pil). Sono stati anche capaci di scavalcare crisi acute. Le banche hanno retto bene, la macroeconomia è stata messa sotto controllo e, soprattutto, è stato riorganizzato un efficiente sistema fiscale. La tassazione, essenziale per una politica di redistribuzione, è aumentata. Il rapporto tasse/Pil in America Latina è più elevato che in Gran Bretagna o in Spagna. Insomma, i paesi latinoamericani sono diventati normali. E la disuguaglianza ha cominciato a scendere’.

Venezia


Democrazia zero e crescita impetuosa. La Cina non contraddice quanto stai dicendo?
‘La Cina non è un paese qualsiasi: ha alle spalle una storia antica di settemila anni, è una potenza nucleare, controlla rigidamente i movimenti interni. Negli ultimi trent’anni ha avuto una crescita impressionante: ha quintuplicato il prodotto lordo per capita, nemmeno gli Stati Uniti di fine ottocento erano stati capaci di tanto, ma è altrettanto vero che la disuguaglianza ha seguito la linea di questa crescita. La Cina oggi è un paese fortemente squilibrato. Il suo indice di Gini è più che raddoppiato. Pechino ha oramai scavalcato gli Stati Uniti in quanto a disuguaglianza. E sta pagando prezzi altissimi: il disastro sociale e ambientale è sotto gli occhi di tutti e fa da contraltare al gran numero di milionari che si è formato in questi anni’.  

Ma la diminuzione della povertà in Cina (dal 60% dei primi anni ’90 al 15% del 2005) è stata altrettanto impressionante. Anzi la povertà complessiva nel mondo è diminuita.
‘Attenzione: è verissimo che il livello di benessere è cresciuto in Cina. Molti sono sicuramente più ricchi, molta gente ha lasciato le campagne ed è andata verso le città: fa una vita difficile, ma meno grama di prima. Ma non puoi fotografare un paese tenendo presente solo la povertà o la ricchezza monetaria. Gli indicatori della disuguaglianza rivelano un paese spezzato. Non solo: la Cina utilizza statistiche  che possono ingannare, ha fissato una linea di povertà inferiore ai livelli stabiliti dalla Banca Mondiale. Non ha senso: in una società che sta correndo verso l’opulenza, un indicatore che segna il confine della povertà assoluta a un dollaro al giorno o poco più non mi raffigura la società.
In Cina c’è un immenso problema della casa: se vivi in campagna, puoi stare nella tua capanna, ma in città non è così. No, i numeri sulla diminuzione della povertà non ci dicono tutta la verità. Un sistema sociale è stato dissolto, ma nessuno sembra aver tenuto conto delle conseguenze. La speranza di vita cinese, negli ultimi trent’anni, è salita solo di due anni. Ai tempi di Mao Tsè-Tung era cresciuta di venti. Gli indicatori che rappresentano l’accesso all’istruzione o alla sanità raffigurano una situazione pessima: ogni servizio è pagato cifre spesso insopportabili. Cresce, di conseguenza, la disuguaglianza e, assieme a lei, l’instabilità. E quanto è accaduto e sta accadendo in Cina, succede, nella stessa identica maniera, anche in Viet-Nam.

Eppure il modello cinese affascina. L’economista zambiana Dambisa Moyo lo esalta e ne predica l’attuazione all’Africa: meno aiuti, più mercato, dittatatura ‘benevola’ in politica e investimenti diretti.
‘E io non sono d’accordo. Non mi stupisce che certi governi africani siano affascinati dal modello cinese, loro stanno sulle sedie del potere e non vogliono mollarle. Non si elegge un dittatore, si sceglie da solo e non puoi certo contare sulla sua benevolenza. S ti ritrovi con un Mobuto, poi te lo tieni. Ma, attenzione, anche in Africa qualcosa sta accadendo. Da una decina di anni ha ricominciato a crescere. Certo, la presenza cinese in Africa ha avuto un effetto trainante considerevole, ma non vi è stato solo questo. Sono diminuiti i conflitti e forme di democrazia si sono estese. La disuguaglianza comincerà a decrescere anche in Africa. Anche se l’economia del continente rimane legata alle materie prime e la sua agricoltura versa ancora in condizioni difficili. L’Africa deve sfamare i suoi abitanti con le proprie risorse. Ancor oggi non è così. I contadini africani hanno bisogno di sementi migliorate, di sistemi di irrigazione efficienti, di fertilizzanti efficaci’.

Mi sembra di capire che, se in America Latina la disuguaglianza è diminuita, nel resto del mondo non è andata così. In Cina è cresciuta, nel mondo occidentale è cresciuta. In Italia il 10% delle famiglie controlla il 45% della ricchezza.
‘E’ vero: c’è una grande biforcazione. In 59 paesi, su 85 che abbiamo studiato, la disuguaglianza è aumentata. Oltre che in America Latina, diminuisce solo in pochi e piccoli paesi europei. In Italia la disuguaglianza sta crescendo dagli anni ’80. E continua a crescere: il mercato del lavoro si è segmentato sempre di più e, allo stesso modo, l’economia sta finanziarizzandosi. E la crescita sta rallentando. Ci stiamo allontanando da paesi virtuosi come quelli scandinavi e avvicinandoci a quelli anglosassoni dove, a fronte dello smantellamento di un’economia produttiva e manifatturiera, cresce solo la finanza e la disuguaglianza è sempre stata molto elevata’

Gondar


Vi sono economisti che sostengono che il sistema capitalistico, nel quale abbiamo scelto di vivere, comporti giocoforza la disuguaglianza.
‘Questo sistema economico, per decenni, ha fatto diminuire la disuguaglianza. Ha garantito mobilità sociale: il figlio di un operaio poteva andare all’Università. Ora il sistema non è più lo stesso, ha cambiato pelle. Non possiamo accettare una massa di giovani precarizzati o senza lavoro. Non possiamo tollerare una disuguaglianza ereditaria e crescente’.

Alcuni ricercatori sostengono che al mondo vi è una casta di otto milioni e duecentomila di super-ricchi. Manager e finanzieri che hanno in mano i destini del mondo. L’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, guadagna quattrocento volte di più di un operaio. Stiamo vivendo un nuovo feudalesimo?
‘Non so se sia un nuovo feudalesimo. So che non mi scandalizza lo stipendio di Marchionne: fa un lavoro produttivo. Mi arrabbio, invece, se un giovane finanziere guadagna quanto lui o più di lui. La finanza è il vero scandalo. Ha colpe gravissime nella crescita della disuguaglianza. Non è accettabile che il valore dei derivati sia dodici volte e mezzo quello del Pil mondiale. Le grandi Borse mondiali, New York e Londra, hanno creato azzardo morale. I finanzieri della City o di Wall Street, al mattino, non vanno al lavoro, ma si siedono al tavolo di un casinò. Trent’anni fa i ricchi erano tutti manifatturieri, oggi in vetta alle classifiche di Fortune ci sono petrolieri, proprietari di media, finanzieri, assicuratori, agenzie di rating. L’economia reale sembra non contare più nulla,  si costruiscono castelli finanziari ad altissimo rischio, capaci solo di produrre instabilità’.

Gerusalemme


Un prete mi ha detto che la ricchezza, o meglio il suo accumulo, è peccato. E’ così?
‘La ricchezza ha prodotto grandi cambiamenti sociali. Pensa solo al nostro paese: in Italia la ricchezza è diffusa, ma è costruita quasi esclusivamente sulla casa. E il capitale industriale, dov’è?
La ricchezza produttiva, quella che si accumula, ma poi produce, è una risorsa, un bene per un paese. Chi vive solo giocando in Borsa non commette solo un peccato, ma un crimine. La ricchezza deve essere uno stimolo a costruire, a creare, non può essere utilizzata solo per giocare’

Uno dei risultati delle tue ricerche mi ha sorpreso. Nel mondo, oramai, ci sono 200 milioni di migranti. E tu sostieni che questo immenso movimento produce disuguaglianza. Ho capito bene?
‘Sono più di duecento milioni. E non migrano solamente Sud-Nord, ma anche Sud-Sud. E’ un fenomeno massiccio e complesso. In America Latina le nostre ricerche ci dicono che questi movimenti di persone e di denaro sta ugualizzando la società. Vi sono meccanismi di migrazione collaudati con costi minori per i migranti. Diverso è quanto sta accadendo altrove: migrare costa molto (fra i tremila e ventimila dollari per raggiungere l’Europa), se ne va solo chi può permetterselo. Chi riesce ad arrivare, rimanda a casa soldi a una famiglia che già aveva la capacità di pensare un simile progetto: si aggraverà, così, la disuguaglianza nel paese di origine. Qui da noi, i migranti non rubano lavoro agli italiani, ma li rimpiazzano là dove loro non vogliono andare. Ma se finiscono nel circuito dell’informale o del lavoro sottopagato, producono un abbassamento generalizzato di salari e di condizioni di vita’.

A leggere le ricette degli economisti, sembra che la sola soluzione di ogni crisi economica, sia la crescita. Ancora una volta, è così?
‘No, non è un dogma, anche se non potremo mai fare a meno di una crescita moderata. Ho lavorato in Toscana a un indice di benessere capace di tener conto di un moltissimi fattori diversi fra loro. Volevo un indice di sviluppo umano locale. E quindi ci siamo messi a calcolare l’inquinamento, la presenza di polveri sottili nell’aria, la gestione dei grandi anziani, i vantaggi e gli svantaggi del turismo, l’integrazione degli stranieri. Volevamo capire quanto la Toscana dovesse crescere per soddisfare queste esigenze e siamo giunti alla conclusione che potevamo accontentarci di un crescita poco superiore all’1%’.

Il luogo dell’intervista
Da fiorentino, detesto l’università trasferita nella periferia di Novoli. Il centro storico del capoluogo della Toscana si è svuotato di studenti ed è rimasto nelle mani dei turisti. E i palazzi in fila di  Novoli, a prima vista, non è un campus universitario: questo nuovo quartiere, appare, a chi si aggira per le sue strade, un brutto isolato senz’anima. Le sue architetture sono mediocri.
La facoltà di economia è diventata asettica e gelida. La piccola e ben ordinata stanza di Giovanni Andrea Cornia (raffigurazioni cinesi alle pareti) è al secondo piano di un palazzo dai grandi spazi. Cubicoli dei professori. Porte quasi sempre chiuse. Sembra il corridoio di un’istituzione totale. Edificio D6, stanza 255, documento da lasciare all’ingresso. Piccola caccia al tesoro per rintracciare i docenti. Questo non è certo un luogo che mette a proprio agio gli ‘stranieri’ che entrano nel mondo chiuso dell’università fiorentina.



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