mercoledì 25 gennaio 2012

Il volo della cicogna



Non è arrivata. Era attesa in Ciad e non è arrivata. Non so se qualcuno l’aspettava davvero, ma di Micki sono certo. Era abituato a vedere arrivare quell’uccello. Era sicuro che fosse sempre lei. Oramai aveva il nido sopra l’albero più alto del giardino. ‘Grandi Ali’ appariva quando il sole si abbassava sulle sponde del lago. Micki sapeva. Con qualche giorno d’anticipo era come se i suoi occhi volassero oltre l’orizzonte a incontrare l’uccello. Ma quest’anno l’aria è immobile, la polvere è dovunque, i vecchi guardano il cielo al riparo di una capanna e stanno immobili. Non dicono nulla. Micki non ha nemmeno la forza di giocare con la sua ruota abbellita con una grande penna di ‘Grandi Ali’.

Lei non verrà. Era una vecchia cicogna. Grande vita, la sua. Inverni in quel lago, assieme a quello strano animale terrestre che parlava al cielo. Estati su un tetto in una terra dove il buio non arrivava mai. Là nessuno le badava. Quegli animali senza piume, i più piccoli fra di loro, alzavano la testa verso il suo nido, qualcuno la indicava con un braccio, ma poi proseguivano inseguendo curiose palle che correvano da sole. Mi piacerebbe dare un colpo di becco a quella palla, pensava ‘ Grandi Ali’. Ma non lo fece mai. Pochi volteggi attorno al nido. L’estate era davvero un riposo, il lago, laggiù, era l’avventura. Nel mezzo, il volo. Sopra mare e sabbia. Quante volte aveva compiuto quella impresa? Mille, secondo lei. Poche, forse nemmeno dieci, a sentire chi ne teneva il conto. ‘Grandi Ali’ non capì perché a un certo punto non riusciva ad alzarsi in cielo: era finita in una rete e mani l’afferravano, le tenevano le ali, le chiudevano gli occhi con un sacchetto. Non seppe cosa le fecero: non provò dolore, solo una paura senza freni. Il suo cuore era risalito fino al becco. Quasi esplose. Poi all’improvviso si trovò libera e, come ubriaca, si impennò verso il sole. E non si fermò più. Aveva un qualcosa di metallo attorno a una zampa.



Arrivò in ritardo. Non trovò il gruppo delle compagne. Poco male: sorvolò il mare da sola. Con sicurezza. Si fermò qualche giorno sulle rive di un fiume al di là di quella traversata. Poi si rimise in viaggio sopra le terre della sabbia. Lei conosceva oasi segrete. La tempesta la soprese senza che se ne accorgesse, la sabbia era diventata uccello come lei e annebbbiava gli occhi, rendeva le piume pesanti, la mappa delle oasi non c’era più. ‘Grandi Ali’ sapeva che non c’era nulla da fare. Vide delle rocce e vi planò con dolcezza. Lì aspettò. Ebbe il tempo di guardare quel piccolo cerchio di metallo attorno alla zampa. Forse per colpa di quegli animali terrestri che l’avevano fermata aveva fatto tardi. Non voleva ammettere che era troppo vecchia. Pensò a Micki. La tristezza le saltò addosso.



Un ultimo sforzo. Con il becco riuscì a spingere l’anello fuori dalla zampa. Perse un’unghia, sanguinò. Tenne in equilibrio quello strano oggetto. Fece due balzi in avanti. Sembrava un aquilone che non voleva decollare. Ci riuscì. Lanciò il cerchietto verso il cielo. Un falco, apparso dal nulla, in un deserto senza un solo cenno di vita, lo afferrò come se fosse una preda ghiotta.
Non so cosa accadde dopo. Micki guardava il lago, le acque si erano ritirate, i vecchi ancora non si erano mossi. Fu da un nuvola che cadde quell’anello. Quasi affondò nella polvere davanti ai piedi del ragazzo. Qualcuno vi aveva inciso sopra: ‘Grandi Ali’. Micki prese quel piccolo pezzo di ferro. Riuscì a leggere una lingua non sua. Non disse nulla, non sorrise, non tradì una sola sola sorpresa. Solo il suo cuore batteva. Come un matto. I vecchi si alzarono. E indicarono una nuvola. Poche ore dopo arrivò la pioggia.

Molti anni, nel deserto del Gilf Kebir, trovammo il corpo di una grande cicogna. Aveva un anello alla zampa. Anche questa storia ha molti anni.


lunedì 23 gennaio 2012

Libia/Il primo viaggio fuori dall'Europa di Mario Monti


Mario Monti e Abdurrahim al-Keeb (da grr.rai.it)



Il premier Mario Monti ha una resistenza invidiabile. Firma il decreto sulle liberalizzazioni e parte per Tripoli. Cambiano i tempi: il primo viaggio fuori dall’Europa di un nuovo presidente del consiglio è in Libia.

L’andirivieni dei premier italiani (dai tempi di Gheddafi a oggi) appare immutato. Come se seguisse un rituale. Anche Mario Monti (come Silvio Berlusconi nel 2008 dopo una doverosa promessa fatta da Massimo D’Alema: le loro foto erano al Museo archeologico del Castello Rosso) riporta a Tripoli un’antica statua trafugata. La testa di Domitilla era stata rubata a Sabratha nel 1969. Battuta a un’asta di Christie’s, venne acquistata da un collezionista italiano. Lo stato italiano l’ha ricomprata. Monti ha consegnato al premier libico, Abdurrahin al-Keeb, anche le chiavi di 15 fuoristrada. Serviranno, dicono, per pattugliare i pozzi petroliferi. E ha firmato accordi per le cure in Italia di feriti di guerra libici e intese militari.

Ma il lavorio diplomatico che ha preceduto l’incontro non deve aver dato grandi risultati. Mario Monti è volato a Tripoli per firmare una dichiarazione di ventiquattro righe. Che non menziona nemmeno una volta il controverso Trattato di Amicizia firmato a suo tempo da Berlusconi e Gheddafi. Eppure sia il presidente del Consiglio Nazionale di Transizione, Mustafa Abdul Jalil, che al-Keeb, avevano promesso la sua riattivazione. L’Italia faticherà a riconquistare il suo primato economico in Libia. La lotta per potere, affari e petrolio sarà complicata e spietata.

Stazione del gasdotto Eni


Nemmeno Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni (ha viaggiato con la delegazione di Mario Monti), è tornato a Milano con una firma sotto il memorandum di intesa sui progetti di cooperazione (380 milioni di dollari, a quanto si legge. Il doppio di quelli promessi a suo tempo a Gheddafi) del colosso petrolifero in Libia. Ma l’Eni mostra grande ottimismo sul suo futuro in Libia.

Mustafà Abdul Jalil (da Iljournal.it)


Strane coincidenze hanno accompagnato la visita di Mario Monti a Tripoli. Nessun incontro con Mustafà Abdul Jalil, il vecchio ministro della Giustizia di Gheddafi. Anche perché il presidente del Consiglio di Transizione era assediato a Bengasi da una folla minacciosa. Assalito il suo quartier generale, distrutto il suo fuoristrada. Reclamavano, si racconta ora, la cacciata dei vecchi funzionari di Gheddafi. Ma si parla anche di tre granate lanciate contro gli uffici del Cnt. Per fortuna che il ministro degli esteri italiano, Giulio Terzi, nei giorni scorsi, aveva tranquillizzato sulla sicurezza in Libia.



Sono finiti anche i tempi delle spese senza limiti dei libici. Anzi, sono giorni di retromarcia. Il governatore della Banca di Libia, Saddeq Omar El-Kaber, ha annunciato che non parteciperà all’aumento di capitale Unicredit: ‘Non è il momento di investire all’estero’. La partecipazione della Libia diminuirà dal 4,9% al 2,8%. Anche il Fondo Sovrano libico, oggi controllato dal Ministero della Difesa di Tripoli, ridurrà la sua partecipazione: dal 2,59 all’1,5%. 
Ci pensa Aabar, fondo di Abu Dhabi, a salire nell’azionariato di Unicredit: ha dichiarato che ha intenzione di arrivare al 6,5% ( anche se le regole Unicredit riconoscono il diritto di voto solo fino al 5%).  Come dire: si sta ridisegnando la mappa di un immenso potere finanziario. Per la piccola storia: Unicredit, ai tempi di Gheddafi, aveva aperto una filiale a Tripoli, prima banca 'occidentale'. Accadeva sei mesi prima della guerra. Tempismo perfetto. 

Ancora: nessuno riesce a fare calcoli precisi, ma i contratti sospesi di aziende italiane in Libia potrebbero ammontare a 500 milioni di euro. E società italiane, durante la guerra, hanno subito danni per 100 milioni di dollari. Nemmeno discussa, fra Monti e al-Keeb, l’eterna questione dei 620 milioni di dollari mai pagati dalla Libia ad aziende italiane. Volti incupiti ai piani alti di Finmeccanica, Iveco, Impregilo o Astaldi: la sorte dei loro contratti in Libia non è certamente al sicuro. E qualcuno si è messo a fare i conti anche del crollo dell’export di una regione come il Veneto verso l’Africa e il Medioriente: meno 70% nell’anno delle Primavere Arabe. La Libia non è più monopolio italiano: Turchia e Brasile sono i nuovi, imprevisti rivali. La Francia rivendica di continuo il suo ruolo ‘combattente’ contro Gheddafi. Germania e Inghilterra sgomitano.

Tripoli sarà più vicina di Washington, ma ci sono ragioni serie per le quali Mario Monti ha preferito incontrare al-Keeb prima di Obama. Sono davvero cambiate le priorità nel mondo.

Hotel Rixos

Dimenticavo. Non vuol dire niente, ma l'incontro fra Monti e al-Keeb è avvenuto all’hotel Rixos (che appartiene a una multinazionale turca, inaugurato meno di un anno prima della guerra). Negli ultimi tempi era il palcoscenico amato da Gheddafi e da suo figlio Saif.
San Casciano in Val di Pesa, 22 gennaio


domenica 22 gennaio 2012

Etiopia-Eritrea/Perchè sono stati uccisi sul vulcano?

La frontiera fra Etiopia ed Eritrea


I giornali italiani, travolti dal naufragio della Concordia, non hanno avuto attenzione per l’uccisione di cinque turisti sulla vetta del vulcano Erta Ale. Dopo le prime incerte notizie si era certi che non ci fosse nessun italiano fra le vittime. Quindi la notizia non aveva più interesse. I giornali della Germania (fra le vittime vi sono due tedeschi) sono stati divisi fra quanto è accaduto all'isola del Giglio (vi sono dispersi tedeschi) e l'agguato sul vulcano. Due cittadini tedeschi sono ancora nelle mani di una sconosciuta banda di assassini. Nelle loro mani ci sono anche due ragazzi etiopici. Un autista e uno scout afar.

Alba sull'Erta Ale


Martedì scorso, alle una del mattino, un gruppo di uomini armati ha fatto irruzione nel campo dove abitualmente i turisti che hanno risalito i sentieri del vulcano Erta Ale passano la notte. Conosco quel luogo. Vi ho passato diverse notti. Da qualche anno si dorme al riparo di capanne a igloo costruite con le pietre laviche. Era impensabile che qualcosa potesse accadere lassù. E’ come immaginare un attentato terroristico sull’Etna. Raccontano che vi erano almeno quaranta turisti in cima al vulcano. Tre gruppi. Più lo staff di guide, cuochi, autisti, scout, poliziotti. Da alcuni anni il turismo in Dancalia è fortemente cresciuto. Chi ha deciso l’agguato ha voluto colpire i turisti occidentali. Ha voluto uccidere. Ha compiuto un'azione di guerra.

Il vulcano


Questo è l’episodio più grave dell’infinita guerra a bassa intensità che ancora vede fronteggiarsi Etiopia ed Eritrea. Non vi è pace fra i due paesi un tempo fratelli. Solo una fragile tregua firmata dodici anni fa ad Algeri. In tutto questo tempo non vi è mai stato un serio tentativo di ritrovare le fila di una possibile convivenza. E' un'altra impotenza dell'Unione Africana (che ha la propria sede ad Addis Abeba).
Un anno fa sono stato in alcune delle zone di frontiera: gli eserciti erano schierati, mi raccontarono di continue scaramucce. Non conosceremo mai la storia di queste battaglie improvvise. Non coinvolgono occidentali. Giovani eritrei ogni notte tentano una fuga disperata dal loro paese. Adesso qualcuno ha deciso di alzare il livello dello scontro. Ha voluto vittime occidentali, ha usato una violenza feroce. Come se si fosse decisa una resa dei conti. Come se si volesse provocare una scintilla per accendere un falò.

Soldati sulla frontiera


Addis Abeba accusa l’Eritrea di aver armato gli assassini. Asmara replica: ‘Sono accuse patetiche’. Le parole dell’Etiopia si induriscono: ‘La nostra pazienza si sta assottigliando. Non staremo seduti mentre il regime di Asmara continua ad appoggiare atti di terrorismo’. Lascia una porta aperta, il governo etiopico: ‘Non è ancora troppo tardi per un’azione della comunità internazionale’, ma, subito dopo, avverte: ‘Il tempo è scaduto’. Fra due giorni, ad Addis Abeba, comincerà il 18esimo summit dell’Unione Africana.

In Etiopia qualcuno pensa che il governo sia troppo cauto e lo scrive in inglese perchè tutti capiscano: 'Troppa prudenza è un brutto segnale: Asmara può insistere sulla sua strada pericolosa'. 

In realtà l’identità degli assassini è ancora un mistero. Circolano voci diverse. Incontrollabili. Nessuno però dubita che siano fuggiti oltre la frontiera dell’Eritrea con i loro prigionieri.

Il lago di lava dell'Erta Ale

L’Erta Ale non è vicinissimo al confine e le sue pendici sono, da sempre, percorse da piccole carovane di contrabbandieri fra i due paesi. Come è stato possibile che nessuno si sia accorto della infiltrazione degli assassini? E che nessuno sia stato capace di interromperne la fuga?

Silenzio assoluto, inoltre' dalle (e sulle) compagnie minerarie (canadesi, indiani, cinesi, etiopici) che, in Dancalia, attorno all’Erta Ale e nella Piana del Sale, stanno per cavare potassio e cercano oro e petrolio. Il giacimento di potassio è, ad ascoltare i prospectors minerari, uno dei più importanti al mondo. I compound delle società minerarie sono protetti dall'esercito etiopico schierato in forze ad Ahmed Ela e a Badda. Negli anni scorsi ci si è interrogati spesso sulla convivenza fra turismo e attività minerarie. L’anno prossimo l’Allana Potash, multinazionale canadese, dovrà cominciare a estrarre davvero il potassio. Dovrà trasportarlo fino a un porto. Da dove può passare? La via più diretta (e loro lo dicono) passa attraverso l’Eritrea. I depositi di potassio sono a settanta chilometri dal mare. Ma c'è una invalicabile frontiera armata di mezzo. Canadesi cavano potassio in Dancalia, ma altri canadesi hanno anche trovato giacimenti d'oro in Eritrea. Il potassio avrebbe potuto obbligare, per interesse, i due paesi alla pace. Può spingerli a una nuova guerra?
San Casciano in Val di Pesa, 21 gennaio




giovedì 19 gennaio 2012

Erta Ale/Sangue sulla lava

Il vulcano, notte

Cinque persone uccise. Non amo, in questo caso, la parola turisti: sono morti cinque uomini Due sono stati feriti. Incertezza sulla sorte di altri: confusamente si parla di due persone sequestrate. Forse quattro.
Questo è avvenuto, lunedì scorso, sull’Erta Ale, il vulcano più celebre della Dancalia, ai confini fra Etiopia ed Eritrea. Ho saputo di questo agguato con un giorno di ritardo. Mi sono rassicurato nel sapere che amici stavano viaggiando in quelle terre erano al sicuro.

Chi legge questo blog o conosce il mio lavoro passato, sa cosa significhi la Dancalia per me. Sa che ho scritto un libro e innumerevoli articoli su questa terra. Sa che ho cercato, in ogni maniera, di favorirne la conoscenza e ho invitato amici a partire per quei deserti di lava e sale. La Dancalia è uno dei luoghi straordinari di questo pianeta. Quando arrivai la prima volta in vetta all’Erta Ale conobbi la meraviglia di uno spettacolo irraccontabile della natura. Se ne avvertiva la forza, terribile e bellissima.

Il vulcano, giorno


Adesso è stato versato sangue su quel vulcano. Un gruppo di uomini armati ha fatto irruzione nel campo dove si trovavano i turisti. Li hanno sorpresi nel sonno. Vi erano almeno quaranta persone sul bordo della caldera dell’Erta Ale. Hanno sparato nella notte. Al buio. Sparato per uccidere. Senza nessuna, apparente ragione immediata. Non erano predoni, gli assassini. Non si viaggia con molti soldi in Dancalia. Puoi impadronirti di macchine fotografiche. Merce non molto preziosa in quelle terre. I fuoristrada dei turisti sono lontani. Al campo base. Quindi questo gesto è stato un atto di guerra. Da oltre dieci anni si combatte una guerra a bassa intensità lungo la controversa frontiera fra Eritrea ed Etiopia. Ma tutto è possibile: banditi, infiltrazioni eritree, episodio di rivalità fra clan, gruppi armati ostili al governo di Addis Abeba. Si voleva colpire i turisti, questa è la sola certezza. Avvertire: che nessuno venga in queste terre. Bisognava uccidere dei bianchi: gli assassini, cinici a rovescio, ben sapevano che solo uccidendo degli occidentali avrebbero ottenuto articoli sui giornali internazionali. Si è voluto terrorizzare. E devastare una precaria economia di una terra ai margini di tutto. Alla fine rimane il sangue sulla lava.

La prima volta sul vulcano


Non ho un giornale. Non devo scrivere un articolo. Non devo copiare siti internet o cercare di raggiungere i testimoni di questo agguato. Non devo andare a tentoni per scrivere una possibile ricostruzione dell’agguato. Un anno fa ero su quel vulcano. Sono tornato in Dancalia anche pochi mesi fa. E' una 'mia' terra. Anche noi avevamo una scorta armata. Ma oramai la consideravamo folclore dei viaggi in Dancalia. Io avevo stretto una strana complicità con un ragazzino fiero del suo fucile. Era il mio scout. Ricordo che aveva un terribile mal di testa. Non ci avrebbe difeso da una  mosca.

Scout sull'Erta Ale

Adesso mi chiedono se vale la pena viaggiare in quelle terre. Domanda che non posso eludere. Non ho risposte che valgano per tutti. Tendo un filo rosso arbitrario: il folle naufragio della nave Concordia, la morte di cinque ragazzi sul raccordo anulare di Roma, l’uccisione di queste cinque persone su un vulcano lontano (non ci sono italiani, come sembrava in un primo tempo: i nostri giornali potranno sorvolare su questo massacro). Si muore durante un viaggio, una vacanza, una ‘avventura’.  Ma viaggiare vale sempre la pena. E, allora, vale la pena salire sull’Erta Ale. Vale la pena andare in Dancalia. Con prudenza, un po’ di timore, molta responsabilità. Ci vogliono buone guide, buoni organizzatori. E nessuna superbia o finzione. Non sono possibili improvvisazioni. Bisogna essere consapevoli di dove ci si trova.

In questi anni è diventato ‘facile’ andare in Dancalia. Ci sono strade asfaltate che là conducono. Ci sono compagnie minerarie che stanno cambiando geografia e società di un deserto. Cinque anni fa non c’era nulla in cima al vulcano. Si dormiva al riparo di una roccia. Adesso ci sono almeno quaranta rifugi in pietra. Vengono ‘affittati’. Qualche migliaio di persone hanno risalito i cammini dell’Erta Ale in questi anni. Ho sempre pensato che quel posto fosse pericoloso per l’azzardo di sporgersi su un lago di lava. Vedevo troppa leggerezza e stupidità. Ci vuole prudenza lassù. Mai avrei pensato a un attacco armato in vetta al vulcano. 

Qui sta uno dei legami con il dramma della Concordia: non dobbiamo pensare che tutto ci sia permesso, dobbiamo saper fermarci, cambiare direzione. Se di questo sapremo essere consapevoli navigheremo ancora (su barche meno ingombranti e arroganti) e torneremo sull’Erta Ale (accompagnati da guide sapienti). Con il senso dei nostri limiti.
San Casciano in Val di Pesa, 19 gennaio



lunedì 16 gennaio 2012

Paradosso Qatar/3

Frammenti qatarini.

Il picolo Qatar
Siria. Hamad bin Khalifa al Thani, emiro del Qatar, è stato esplicito: ‘Devono essere mandate truppe in Siria per fermare le uccisioni’. Doha, a suo tempo, inviò aerei e uomini in Libia. Oggi è pronta a ripetere la stessa operazione in Siria. Il Qatar guida il gruppo Siria della Lega Araba. La proposta dell’emiro lascia perplessi gli altri paesi arabi.

Tunisia. Il Qatar, secondo il partito islamico tunisino Ennhada, a leggere la rivista italiana Nigrizia, è ‘la patria delle rivoluzioni arabe’. Ai primi di gennaio, il carismatico leader di Ennhada, Rachid Ghannouchi, è andato, in visita privata, a Doha. Il Qatar come maestro di democrazie?

Afghanistan. Intensa attività diplomatica di Doha. L’emirato dell’Afghanistan, così si definiscono i Talebani, ha raggiunto un accordo per l’apertura di un loro ufficio in Qatar. Kabul cede. Le trattative fra Stati Uniti, Nato e Talebani si svolgeranno a Doha. Gli Stati Uniti promettono la liberazione di prigionieri di Guantanamo in cambio dell’apertura di negoziati. Doha è un crocicchio diplomatico.


Parigi. Buon esordio del Paris Saint Germain di Carlo Ancelotti nel campionato francese. Il Psg appartiene al Qatar Sport Investments. Ha compiuto una pirotecnica campagna acquisti. Il Qatar sta acquistando l’ex-Milan: dopo il manager Leonardo, ha esonerato l’allenatore Antoine Kombouaré, vecchia bandiera della squadra, per ingaggiare l’ombroso Ancelotti. Il Psg era primo in classifica, ma Kambouarè non aveva il glamour del duro Ancelotti. A Parigi dovrebbero arrivare anche i 37 anni di Beckham. ‘Non è più calcio, è Disneyland’, si tormenta l’attore Lorànt Deutsche, uno dei tifosi più celebri. 'Il Psg si è venduto l'anima al diavolo', titola Le Monde. Solo nostalgie del calcio che fu?

Doha. Sì, il Qatar è un paese interessante. 

domenica 15 gennaio 2012

Accettura, la perfezione del Maggio


Questo non è un post. E' un articolo. Un vecchio articolo. Difficile da leggere sullo schermo di un computer. Ma ho voglia di metterlo qui. Per ricordare Angelo Labbate. Angelo, giornalista e antropologo, mi fece conoscere il Maggio di Accettura e il ricordo di quei giorni di Pentecoste è ancor oggi un'emozione.
Scusatemi, è troppo lungo per stare in un blog. Ma va bene così.



I buoi trascinano il Maggio, un grande cerro


Sono sopravvissuto al Maggio di Accettura. Felicemente sopravvissuto. Sono stati quattro giorni di gioia assoluta, baccanale euforico, sorpresa totale. Giorni eccitati, sopra le righe. Rileggo, con stupore, quanto dissi a un giornale lucano: ‘Nei miei viaggi non mi è mai successo di vivere una storia così emozionante e irraccontabile come il Maggio del vostro paese’. Sarò stato intontito dal vino e dalle zeppole, le frittelle offerte a interi cesti dalle donne, ma credo di aver detto la verità. Ricordo benissimo quando parlai con Angelo Labbate, giornalista e antropologo accetturese: era la notte dell’ultimo giorno, la festa non voleva finire, eravamo stremati e sopra di noi, ben piantato nella buca scavata nella piazza-anfiteatro di san Vito, svettava solitario quell’albero altissimo, quaranta metri da vertigini, un cerro e un agrifoglio sposati assieme, matrimonio entusiasmante di un rito arboreo. L’albero nudo, con una cima irraggiungibile di fronde, superava in altezza il campanile della chiesa. E, illuminato dalle luci colorate delle bancarelle, sembrava godersi ancora la festa, la sagra, la musica, le danze, il cibo, il vino. La bassa musica, tamburelli, trombe, fisarmoniche e zampogne, suonava ancora, sommessamente, per corteggiare la notte: era come una ninna dolcissima per gli spiriti della Natura delle foreste di Gallipoli-Cognato e delle cerrete di Montepiano. Si stavano finalmente addormentando dopo i giorni senza fine della Cuccagna.

Il cerro in marcia verso il paese


Scusate, il Maggio di Accettura accende dentro di me fotogrammi di felicità perfetta. La primavera lucana è una resurrezione. Gli inverni, qui, sono duri e lunghi. Accettura è a ottocento metri di altitudine, paese-sparviero (questo, forse, vuol dire il suo nome in un dimenticato latino), paese di montagna ai confini delle Dolomiti lucane. Poco più di duemila abitanti. E altrettanti emigrati nel dopoguerra: soprattutto a Nottingham, in Inghilterra, dove vivono almeno mille accetturesi. Quasi tutti tornano per la Pentecoste, giorni della festa del Maggio. Fine dei mesi del freddo, evento propiziatorio di fertilità e fecondità, ritualità cristiana e pagana allo stesso tempo. Grandi fotografi, documentaristi (Dondero, Koudelka, Quilici), antropologi (De Martino, Bronzini, Annabella Rossi) sono rimasti a bocca aperta di fronte al Maggio di Accettura. L’Unesco ha inserito questo rito fra le più belle feste del Mediterraneo. 


I vecchi allevatori

La gente di questa Lucania profonda ha sempre amato (e temuto) i boschi e le foreste. Per secoli, le ribellioni popolari contro i poteri feudali e nobiliari sono cominciate con l’occupazione dei boschi dei signori. Il bosco era lavoro, sopravvivenza, nascondiglio. La primavera cancella ogni paura, invita a tornare fra gli alberi. In questa terra, i riti arborei, forse eredi di culti longobardi, sono l’evento più importante dell’anno. Con complesse cerimonie e grande fatica, bisogna far sposare gli alberi. Un agrifoglio e un cerro ad Accettura (festa dedicata al patrono san Giuliano), faggi a Rotonda, tronchi d’abete a Viggianello. A Oliveto Lucano, meno di venti chilometri da Accettura, hanno il loro Maggio (dedicato a san Cipriano) e i boscaioli dei due paesi sorvegliano gli agrifogli prescelti per il matrimonio per evitare sgarbi e furti. A Castelsaraceno il rito dello sposalizio (in onore di sant’Antonio) è infinito e, fra taglio dei due alberi, trasporto e innalzamento, si va avanti per ben tre domeniche di giugno. A Terranova di Pollino l’albero-sposa è adornato con nastri colorati. A Castelmezzano si aspetta settembre per unire cerro e agrifoglio. A Pietrapertosa l’albero innalzato rivaleggia con le cime aguzze delle Dolomiti Lucane. Insomma, fra queste montagne e il selvatico massiccio del Pollino, ogni anno, fra la primavera e la fine dell’estate, si celebrano almeno otto matrimoni arborei. E, poco oltre il confine regionale, versante calabrese del Pollino, anche gli uomini di Alessandria del Carretto trasportano a spalla cima e tronco di un abete colossale per ricongiungerli nella piazza del paese. Si può così passare i mesi delle belle stagioni in Lucania e godersi una festa nuziale infinita. Nemmeno le nozze di William e Kate sono state così grandiose e così perenni.

I giovani alla ricerca dell'agrifoglio


I quattro giorni di Accettura sono indimenticabili. Non si fermano nemmeno davanti alla pioggia. Bisogna essere forti, instancabili e avere il dono dell’ubiquità durante la festa. Bisognerebbe avere anche tempo, è cerimonia lenta il Maggio di questo paese. Dilatata nelle settimane. Otto giorni dopo Pasqua, si scelgono gli sposi. Un agrifoglio della foresta di Gallipoli-Cognato sarà la ‘Cima’. Occhi esperti hanno scelto il più bello e il più frondoso. E per settimane gli uomini dei boschi hanno tenuto segreta la loro scelta. Nessuno dovrebbe sapere dove si trovi l’albero ‘eletto’. Nello stesso giorno, su un’altra montagna, a oriente di Accettura, nella foresta di Montepiano, il giorno dell’Ascensione, altri boscaioli hanno tagliato, con scuri e seghe speciali, un cerro ‘perfetto’. Possente come una colonna greca, dritto come un pilastro, alto quasi trenta metri. E’ lui il Maggio, lo sposo.

L'arrivo in paese dell'agrfoglio


Ecco, arriva la Pentecoste. Cinque settimane dopo Pasqua. Il gran giorno del matrimonio arboreo. L’alba è passata da poco, ma  gli accetturesi più giovani e più spavaldi hanno già raggiunto, con un corteo festoso, il bosco di Gallipoli. Sono stati condotti alla ‘Cima’. I boscaioli si sono contesi l’accetta per tagliare il grande agrifoglio come se fosse un sacrifico rituale. Poi decine e decine di ragazzi, cimaioli eccitati, lo hanno sollevato, se lo sono sistemato sulle spalle e, a passo di carica, hanno ridisceso la montagna. Era come se si muovesse l’intera foresta. Una baraonda: i ragazzi incespicano, scartano di lato, si passano il tronco. Il vino scorre a garganella da botticelle miracolose. Le donne offrono cibo dai loro panieri. I bambini inciampano in ogni sasso. E’ una sorta di presepe tumultuoso. Ma c’è anche la pace di una messa ai lati della strada. C’è il tempo per un immenso pic-nic popolare in un prato: tovaglie sull’erba, salami, formaggi, baccalà, frittate. Urla di giubilo da ogni angolo del bosco. Questa sgangherata processione camminerà per un giorno intero. Scenderà e risalirà il vallone della Salandrella. Arriverà in paese nelle prime ore della notte. E lì la sposa-agrifoglio attenderà il suo promesso.

L'arrivo in paese del cerro


Nelle stesse ore in cui veniva tagliato l’agrifoglio, nella foresta di Montepiano, attorno al grande ‘Maggio’, il cerro abbattuto all’Ascensione, si sono radunati i massari, i contadini più anziani, i boscaioli più esperti e saggi. Sono i maggiaioli. Indossano panciotto e pantaloni di fustagno. Uomini maturi e forti che ora sembrano valutare la fatica che li aspetta. Da ogni radura spuntano fuori coppie di buoi dal manto bianchissimo e dalla mole immensa. Fra le corna hanno ciuffi di ginestra e immagini di san Giuliano. Le urla dei bovari li spingono verso il grande cerro. Che pesa almeno trentacinque quintali. E toccherà a queste pariglie di buoi trascinarlo fino al paese. Gli spiriti della vegetazione, se ci credete, sono nascosti sotto la corteccia dell’albero: sono loro, scrive l’antropologo materano Giovanni Battista Bronzini, a ‘far crescere il grano e moltiplicare il bestiame. Rendono feconde le donne, danno benessere alla comunità’. Sono i protagonisti invisibili della festa del Maggio.

La festa nel bosco


I buoi vengono aggiogati al tronco. Comincia il loro durissimo lavoro. Non vi sono più abituati. Nelle campagne di Accettura vengono allevati solo per questo giorno così speciale. Sbuffano, si impuntano, cedono all’improvviso, tirano con un sforzo immane, gli zoccoli scivolano nel muschio: alla fine il cerro si smuove, raggiunge una mulattiera, poi una strada sterrata. Uomini e ragazzi (anche ragazze. Con gommina nei capelli, scarpe Nike e pantaloni Dolce e Gabbana fasulli), in piedi sui tronchi, guidano la marcia dei buoi come se fossero sopra una biga indomabile. Si rincorrono grida di incitamento. Anche qui: vino a fiumi, musica che rulla per incoraggiare, ebbrezza. Il cammino fra Montepiano e la piazza di Accettura durerà l’intera giornata. Vi sarà il tempo per mangiare pecora e formaggi lungo la strada. I buoi devono tirare il fiato. Solo a sera, ben oltre il tramonto, anche questo corteo arriverà nella piazza del paese. E qui il Maggio conoscerà la Cima. I due alberi si incontrano prima delle nozze. E i ragazzi, i cimaioli ubriachi, abbracciano i vecchi bovari, gli anziani maggiaioli. Musica e danze fino a notte fonda.  

I vecchi musicisti


Al lunedì, giorno dopo la Pentecoste, grandi lavori per il matrimonio. I due alberi dovranno essere uniti e innalzati. Con un gioco di incastri devono essere innestati l’uno con l’altro. Diventeranno un unico, altissimo tronco. Si costruiscono argani e paranchi. Non si possono usare né gru, né trattori per innalzare il Maggio. Si lavora di motosega e cunei di ferro. Il selciato di un angolo della piazza, al centro di una sorta di anfiteatro, viene smantellato. Si scava una grande trincea. Attorno ai manovali si intrecciano processioni: dalle campagne della Valdienna risalgono le immagini dei santi Giovanni e Paolo. Appare persino san Giulianicchio, rappresentazione giocosa del nipote del patrono. Al martedì saranno le donne a percorrere, danzando per devozione, le strade del paese portando sulla testa le cende, pesanti costruzioni di candele, nastri e fiori.

Le ragazze di Accettura
La felicità del Maggio

La processione

Il Maggio

  
Salire sull'albero

Il martedì dopo la Pentecoste è l’atto finale. Tensione nell’aria fin dal mattino. Funi robuste, forza di braccia, sforzo di decine di uomini, argani e paranchi che cigolano. L’albero, i due sposi uniti uno all’altro, viene innalzato. La musica rulla con frenesia. San Giuliano deve dare il suo ‘consenso’ all’ultimo strappo. Un’ultima, frenetica fatica. L’albero ora svetta sopra i tetti delle case. A quaranta metri di altezza, la sua Cima di fronde oscilla leggermente. Silenzio improvviso. Come un tirare il fiato. Ora è il momento dei funamboli, degli acrobati. I giovani più coraggiosi (Antonio, Rocco, Leonardo) si arrampicheranno sull’albero. Senza protezione. Con mani e gambe come uncini, saliranno lungo un legno liscio e verticale. Si spenzoleranno nel vuoto a testa in giù, ruoteranno attorno al tronco. Raggiungeranno la Cima, si godranno la Cuccagna, e da lassù guarderanno la piazza del paese come autentici Re del Maggio. Poi i ragazzi scendono con velocità, tornano a terra, vengono abbracciati. Trionfo intenso e breve. Stanchezza profonda e gioiosa. La gente del paese sciama verso le bancarelle, le giostre dei Luna-Park di campagna, gli slarghi dove si canta e si balla. L’albero, il Maggio, ritrova pace e solitudine. Gli uomini che lo hanno costruito lo guardano un’ultima volta. Vanno a casa. Riappariranno sul corso del paese un’ora più tardi. Per passeggiare orgogliosi. Vestiti a festa.
Scritto un anno fa. Per la rivista del Touring Club Italiano
  


  



sabato 14 gennaio 2012

Angelo, Accettura, il Maggio, i fuochi di San Antonio Abate

Angelo, il giorno del Maggio


Chiama Maria Luisa. Al mattino presto. Da Accettura. Giù, in Lucania. Lascia un messaggio: ‘Devo dirti una cosa’. Penso d’istinto: ‘E’ morto qualcuno’. Penso a lui. A un uomo massiccio, grande e grosso, dalla voce alta. Perché penso a lui? A Sciabolone. Perché ho questo pensiero?

Maria richiama. E’ così. E’ morto Angelo Labbate. Sciabolone. Sciablo.

Avevamo il suo indirizzo in tasca, quando, per la prima vota, qualche anno fa, siamo arrivati ad Accettura. Paese della più straordinaria festa, sacra e pagana, del Sud italiano: il Maggio, il matrimonio degli alberi, San Giuliano, quattro giorni di libertà e follia. Prima di partire, un amico di amici, emigrato a Torino, mi aveva consigliato di cercare Angelo. Antropologo di paese, guida e amico degli antropologi che erano venuti ad Accettura per scoprire i misteri del Maggio. Fu lui a parlarmi di Mario Dondero, il più grande dei fotografi del ‘900: una sua foto del Maggio è in copertina nella sua biografia appena uscita per Bruno Mondadori. Fu lui a tessere il primo legame attraverso il quale conoscemmo Dondero.

Angelo, ci disse l’amico accetturese, migrato al Nord, ci avrebbe raccontato il Maggio.

Lo trovammo intento a giocare a carte. Tavolo all’aperto. Di fianco a un bar. Era sera. Fece un cenno con la testa. E continuò a giocare. Era immenso sulla piccola sedia. Poche mani. Silenziose. Perse la partita, credo. Sbuffò. E, con lentezza, cominciò a soppesarmi. Immagino che pensò: un altro giornalista che arrivava per la festa. Fu una complicità lenta. Alla fine, credo, fu una piccola amicizia. Noi tornavamo ad Accettura. E questo è importante. 
Angelo mi raccontò davvero il Maggio. Mi offrì carne alla griglia davanti a casa sua. In quei giorni i macellai accendono i carboni in strada. Portò i piatti dalla cucina e ci sedemmo su due sedie sconnesse. Facemmo lo stesso in un gelido giorno di gennaio, san Antonio Abate, quando ardono i fuochi nei paesi. Penso: Angelo se ne è andato alla vigilia dei nuovi fuochi. Saranno accesi dopodomani.

Mi donò le pagine dei suoi articoli. Non mi disse niente, mi guardò muovermi nell’andirivieni degli alberi che stavano sposandosi. Spariva e riappariva. Osservava i riti della festa che conosceva in ogni suo movimento. In silenzio. Era un custode, Angelo. Un custode di una storia. Che ci raccontò. Angelo lavorava alla biblioteca del paese.

Alla fine, l’ultimo giorno della festa, Angelo mi sorprese: apparve vestito nella maniera più elegante che potessi immaginare. Abito nero, cappello, golf girocollo bianco, occhiali scuri. Quel pizzo bianco, strano e autorevole. Un capo. Era raggiante. Tutto era andato bene. Mi accompagnò da una sua amica. Una grande senegalese dalle vesti sgargianti che ogni anno veniva ad Accettura per i mercati della festa. Mi chiese di fotografarlo assieme a lei. Erano bellissimi.

Una volta tanto mi sono ricordato di spedirgli quella foto.

Lunedì i fuochi di Accettura saranno per lui. E quest’anno noi torneremo al Maggio. 
Padova, 14 gennaio

venerdì 13 gennaio 2012

La foto di Anna

Anche questa è una vecchia storia. Sono giorni in cui riappaiono storie non-storie.

Questa foto è stata scattata a Matera, all'Osteria Malatesta



Devo trovarla. Non ho alternativa. Ma non so dove sia. Non ricordo nemmeno di averla mai vista. Ma Anna è sicura: ho scattato quella foto, dieci anni fa – era ben più di dieci anni fa – gliel’ho mostrata. Su questo lei non è sicura: non ricorda se era una diapositiva che le ho fatto vedere in controluce o se era una stampa. Io dovrei averle detto: ‘Facciamo uno scambio. Ti regalo questa foto, se tu mi spedisci la mia’. Imbecille. Io, imbecille. Anna mi mandò quella foto, io no, sostiene lei. Dice che era un’immagine che la ritraeva intenta a disegnare su dei fogli in mezzo a degli indigeni in Amazzonia. No, nella mia testa non c’è niente. Ma Anna mi è tornata in mente: un giorno a Rio de Janeiro in un albergo con le tende viola, una notte a Milano, un’altra a Roma. 

Questa foto è stata scattata nella casbah di Algeri


Era strana, Anna. Credo che facesse l’artista. Mi piaceva, ma non c’era modo di sapere niente di lei. Poi è riapparsa dopo dieci anni. No, sono ben più di dieci anni. Non so dove abbia ritrovato il mio numero di telefono. Si vede che in tutti questi anni non è cambiato. Mi ha chiamato per cercare una foto scattata in quella preistoria. Al telefono mi ha detto che ha i capelli bianchi e ha riso. Io dovrei avere due foto: la mia, che lei mi ha mandato, e la sua, che non ricordo e non so dove cercare. Non ho pensieri. Sono solo sorpreso. Questa storia che non è una storia mi piace. O meglio credo che mi piaccia. Vorrei davvero cercare una foto che non troverò. Vi farò sapere come è andata finire. Ho promesso ad Anna che le avrei ritelefonato lunedì prossimo. Anzi: le ho detto che se non mi avesse sentito, poteva richiamarmi. Gentile, cavolo. Ma dove la cerco la foto di Anna? Forse nella cartellina rossa. L’ho aperta e l’ho richiusa. Cerco di immaginarmela con i capelli bianchi. E ricordo i racconti che lei leggeva sui gradini di un capanna-albergo accerchiata dall’umidità. La foto deve essere rimasta laggiù. Qualcuno l’avrà trovata e l’avrà messa nel suo portafoglio. Poi quel portafoglio fu rubato. Il ladro si tenne i soldi, gettò il resto nel fiume. Quache pesce si sarà divorato la foto di Anna. Domani la cerco, lunedì le telefono.

Non ho più sentito Anna da quel tempo.
La storia di questa fotografia è stata dimenticata.


martedì 10 gennaio 2012

Metti, se capiti, non per sbaglio, a Pitti Uomo.


Salone dei Cinquecento



Le grandi foto di Aldo Fallai nella Sale d’Arme di Palazzo Vecchio. Primo atto della nuova edizione di Pitti Uomo. Evento Mondadori. Buffet a finger food nel Salone dei Cinquecento. I milanesi sono all’oscuro delle polemiche che avvolgono la ricerca dell’affresco scomparso di Leonardo da Vinci. Gli uomini-serata proiettano le foto di Aldo sulla parete di fondo del grande salone: strano effetto da Orwell 1984. 
Chi farà il casting delle guardie del corpo? Privi di senso dell’ironia. Quasi tutti a testa calva (muscoli arrotolati sul collo da tori), auricolare bianco nelle orecchie, strizzati in giacche eleganti come una divisa, occhi senza espressione e mani intrecciate all’altezza del ventre. Un uomo, dimesso e nervoso, controlla con qualche apprensione che tutto vada bene: deve essere il responsabile del buffet. I camerieri roteano fra gli invitati (Aldo, fotografa i camerieri, è un ottimo servizio). Nessuno ascolta la povera cantante jazz, fuori posto in un salone disattento. Tutto preso nella propria autorapresentazione.


Le foto di Aldo Fallai


Poca gente passeggia fra le immagini (belle, grande lavoro in post-produzione) di Fallai. C’è anche Cesare Prandelli fra le persone fotografate. Gli invitati preferiscono le delizie del buffet. Passa in fretta un direttore generale della Mondadori, so che trent’anni fa dirigeva Radio Popolare.


Foto ricordo

Chiacchiere fra gli invitati. Si parla, con rabbia contenuta, dei controlli della finanza. Afferro frammenti di conversazione sui laboratori dei cinesi (faccio una scelta selettiva e colma di pregiudizi, lo ammetto). E’ il mondo della moda, questo. Poi ascolto con qualche preoccupato interesse: ‘Ho messo i soldi, una parte dei soldi, in una cassetta di sicurezza. Qui salta tutto. Non ci sono più soldi. La banca non voleva rendermi i miei soldi. Ci sono piani per chiudere le frontiere della Germania quando alcuni paesi torneranno alle loro monete. La Grecia, a giugno, userà le dracme. La piramide finanziaria non riesce più a stare in piedi’. Panico nel mondo della moda?
E questa gente attorno a me, tirata a lucido, che si gode una finzione quasi gaudente e afferra con gesto rapido la fettina di cinta cinese arrotolata su un dattero? ‘In molti qua dentro sanno che non c’è più molto tempo. Vogliono solo durare. Tirare più a lungo possibile. Ogni giorno sono soldi. In tre mesi guadagnano denaro a sufficienza per comprarsi una casa’. Come dire: vogliono arrivare in gran forma al finale. ‘Se hai bene solidi, te la cavi. E loro vogliono cavarsela’.

Vado al buffet a rifornirmi di panini tartufati.

Intervista


Poi, a notte, rileggo le parole che John Berger, grande vecchio della scrittura, consegna, di malavoglia, a un bravo giornalista che lo intervista. La domanda è: ‘Chi sono i nuovi tiranni?’. Risposta: ‘Sono anonimi. Operano attraverso il capitalismo finanziario. I loro occhi esaminano tutto e non  contemplano nulla. Sono incapaci di ascoltare e la fiducia in se stessi è pari alla loro ignoranza. Profittatori. Non sanno niente. Conoscono solo i loro racket. Da qui la paranoia, e, generata da questa, la loro energia ripetitiva. Il loro reiterato articolo di fede è: non c’è alternativa’.

E’ che non mi piace fare il moralista.
Firenze, 10 gennaio