martedì 29 novembre 2011

Luoghi di resistenza (in)consapevole/La libreria Griot a Roma

Il tempo in libreria


Angolo di via Santa Cecilia, quartiere di Trastevere, Roma. Piccola porta a vetri. Qualche incertezza a capire che si tratta di una libreria. Tre tavoli, sedie, fogli sparsi. Questo è un luogo dell’Africa.
Long sellers: Maryse Conde con le sue ‘Mura di Segou’. La giovane Igiaba Scego, scrittrice in bilico fra Somalia e Italia, gioca in casa (lei è romana e romanista): i suoi libri della doppia identità sono molto amati. Ma anche la nigeriana Adichie Chimananda ha i suoi appassionati. Riszard Kapuscinski e Angelo Del Boca devono essere sempre presenti sugli scaffali della libreria: penso che sia uno strano accoppiamento, due grandi giornalisti che hanno raccontato in maniera opposta la grandezza e la nefandezza di Hailé Selassiè, ultimo negus d’Etiopia. E ancora, i classici: Ken Saro Wiwa, ‘Il crollo’ di Chinua Achebe, almeno fino a quando e/o lo ha ristampato. Bella classifica di libri. Quasi un indice di gradimento dei libri africani in Italia.

Leggere in libreria


Cinque anni di vita. Non è poco per una piccola libreria così specializzata. Ostinazione e passione. Libreria al femminile. Quattro donne a gestirla nella vita di ogni giorno. Forse solo delle donne potevano avere il coraggio sfacciato di creare una libreria africana. Forse devi credere che Carla abbia assecondato il desiderio della figlia Martina. La ragazza era tornata da una storia africana come esperta dell’Unesco. Non voleva dimenticare. La madre le dette una mano. E aprirono un luogo di libri africani. Una libreria controcorrente. Capace di raccontare come questo continente fosse vitale. Un luogo dove sfuggire agli stereotipi nei quali noi occidentali vorremmo rinchiuderlo. I libri sugli scaffali, gli oggetti, i veli mauritani come i tessuti maliani, bi dvd di questa piccola libreria sono a dimostrare la forza dell’Africa.

Giuseppina di fronte alla libreria


Si vive di libri africani? ‘Si sta a galla’, dice Giuseppina, antropologa, traduttrice de ‘L’invenzione dell’Africa’. Sì, se la libreria diventa anche  Officina e offre corsi di lingua (arabo - grande successo, effetto delle primavere del Nordafrica – swahili, amarico e farsi). Sì, se si inseguono le case editrici (spesso disattente verso le piccole librerie) che pubblicano libri africani. In difficoltà Epochè (hanno avuto il coraggio di collane africane), ecco che Morellini ha una collana Griot, E/O ha ‘I leoni’, Nuova Frontiera è attenta all’Africa. Escono libri per Jacabook e per Harmattan. L’Emi conserva e rinnova la sua storia africana. Uno scaffale è dedicato al mondo nero del continente americano.




Non si passa per caso da via Santa Cecilia. Non è fra le strade del turismo bohèmienne che affolla Trastevere. Bisogna cercarla, questa libreria. Studenti, aficionados, viaggiatori, lettori accaniti passano con qualche regolarità. Cercano libri particolari. Qui si fanno incontri, io passo del tempo con Matteo che sa di Somalia (incontro casuale, appunto, in un pomeriggio) e sta cercando di imparare l’arabo. Ci sono oggetti che raccontano frammenti di Africa. Oggetti portati da amici. C’è un catering (maliano e palestinese) per occasioni conviviali.

Fra qualche tempo, dalla officina della piccola libreria partirà il progetto di una mappa. Un wiki-Africa italiano. Un tentativo di scrittura collettiva di una mappa che ci indichi i luoghi presenza africana in Italia. Progetto da seguire. Al quale collaborare.

Luogo strano. E, allo stesso, normale. C’è aria di casa. Luogo prezioso.
Roma, 26 novembre
Libreria Griot
Via di Santa Cecilia, 1/A a Roma
Tel. 06.58334116
www.libreriagriot.it
Chiuso al lunedì. 

sabato 26 novembre 2011

I bigliettini di Trastevere

I bigliettini sulla statua di Sant'Antonio


Chiesa di Santa Maria a Trastevere. Poco più delle otto del mattino. I mendicanti prendono posto nella piazza. Il ‘loro’ posto. Quali trattative vi sono state per decidere? Gli uomini rom camminano con il bicchieretto di plastica in mano: ‘Figli, fame, figli’. Le donne si sistemano agli angoli. Un ragazzo nero oscilla su gambe malferme. Lancia sguardi dal basso. Altri, più ambiziosi, trovano istanti di pace nella chiesa. Si siedono. Aspettano.
Davanti alla comunità di Sant’Egidio, due uomini e una donna, vestiti con eleganza da diplomatici, attendono una macchina con autista. Arriva con un ultimo colpo di acceleratore. Il fotografo si muove. Scende un africano di alto rango. La comunità ora ha un ministro nel governo. Fremono di orgoglio e di importanza. Un soldato di guardia osserva con indifferenza. Nelle orecchie l’auricolare bianco di un ipod.

Il messaggio di Ana y Antonio ai piedi del Santo


Dentro la chiesa, la statua di sant’Antonio è sommersa da biglietti di carta. Richieste di grazia, di aiuto, di incoraggiamento. I piedi del santo sono coperti dai messaggi. Qualcuno è riuscito a infilare un foglietto persino fra le dita della statua. Un messaggio, fra i tanti, è ben leggibile: Ana e Antonio chiedono l’aiuto di sant’Antonio perché Mari Carmen trovi un fidanzato. E’ scritto in spagnolo.
La piazza è bellissima in questa ora della mattina.
Roma, 25 novembre

Ps: a sera la piazza si svuota dei medicanti. Abbandonano i loro luoghi. Appaiono i suonatori,  i venditori di fiori e di chincaglierie. Solo il ragazzo nero dalle gambe malferme e dallo sguardo dal basso non si è mosso. E’ lì, a fianco della chiesa di santa Maria, da almeno dodici ore. Nel primo pomeriggio era seduto, leggeva un fumetto con una sigaretta malridotta in mano. Il cappuccio quasi tirato sugli occhi. A sera stava travasando vino in una bottiglia di plastica.


Enzo in San Francesco a Ripa


A notte, incontriamo Enzo. Suona la chitarra in San Francesco a Ripa. Vive a San Basilio. Aspetta sempre l’ultimo autobus. Viene ad ascoltare la musica dentro il caffè. Gli offriamo vino e torta al cioccolato. Poi ci invita a uscire e per noi suona De Gregori. ‘Hanno ammazzato Pablo’. Già, e Pablo è vivo.

martedì 22 novembre 2011

Folco Terzani/A piedi nudi sulla Terra

Folco Terzani



Folco parla a voce alta. Un po’ accelerato. Un tono sopra le note, immagino. Non è sommesso. Ha urgenze. E ha un bel sorriso, i capelli raccolti a coda, indossa le scarpe (sostiene che le porta raramente e il libro che ha appena scritto si chiama ‘A piedi nudi sulla terra’, edito da Mondadori – ohibò!-). E’ simpatico, Folco. Ha cose da dire. E’ onesto: ‘Io sono una frode’. Affolato il secondo piano della libreria Edison nel pieno centro di Firenze. Questa è la città di suo padre.

E’ attratto dagli ‘estremisti’, Folco. Dalle suore di Maria Teresa di Calcutta. Dai loro sorrisi di fronte alla morte. Dalla perfezione del loro ‘nulla’ che è un ‘tutto’. Poi segue le orme degli asceti indiani. Incontra Baba Cesare. Per scoprire che è italiano con un passato che non si può raccontare. Folco prova a vivere come un asceta. Senza nulla. Perfino con l’impegno del silenzio. Avere mai provato a essere senza 'nulla'?

Qualcuno li fa scivolare una moneta da cinquanta rupie e Folco si aggrappa a quel biglietto che vale meno di un euro. E' tutto quello che ha. Ma un asceta gli racconta come con i soli soldi che possiede, ha comprato caramelle per i bambini. Folco ‘capisce’. E si libera anche delle cinquanta rupie. Nudo. Nel mondo. 

Folco Terzani alla libreria Edison


Folco parla del sole. Gli asceti ringraziano il sole. E’ la vita dopo la notte. La vita è nel sole, non nella economia. L’asceta è sopravvissuto al buio e al freddo e ora il sole lo incoraggia. Lo guarderà per tutto i suo viaggio nel cielo. Fino al tramonto. Ho un pensiero blasfemo. Quali sono state le prime parole di Mario Monti da presidente incaricato? ‘Che bella giornata’. E guardava il cielo. Il sole sorge per tutti: per i potenti e per gli asceti. Anche i presidenti hanno occhi per il sole? Ma la loro notte non è stata un pericolo. 

Fatico a seguire Folco. E' troppo veloce. Parla in fretta. Delle montagne. Che sono lì per te. Dei confini da varcare. Della ‘ricerca’ (e io non sono cosa sia questa ‘ricerca’). Della spiritualità. Della forza del movimento che ha condotto in India una generazione di ragazzi. A questa stirpe apparteneva Baba Cesare, il personaggio reale del libro. Coicidenze: la sera prima anche Giuseppe Cederna mi ha parlato di chi andava in India via terra. Anni ’60 e ’70. I ragazzi partivano senza consapevolezze, figli di una cultura che stava cambiando il mondo occidentale. Decidevano la sera e la mattina dopo erano a Venezia, sul treno per Istanbul. Senza una lira in tasca. Un treno fino a Tehran, un magic bus fino a Kabul, in Afghanistan si fumava tutto quello che si poteva fumare, poi si attraversava a piedi il confine con fra Pakistan e India.

Mia figlia, oggi, non può rifare questo viaggio. E io mi interrogo sulle ‘colpe’ di quella generazione. Della mia generazione. Siamo passati per l’Iran e per l’Afghanistan senza guardarci attorno, autoreferenziali, concentrati solo su noi stessi, bravi a cambiare (forse) il nostro mondo, ma incapaci di alleanza con la gente che incontravamo. Amavamo la bellezza dell’Afghanista e dell’Iran senza accorgerci del marciume della sua società. Eravamo ‘protetti’ dallo Scià e dal Re. Dalle loro polizie. Sembra assurdo, vero? Insomma, forse abbiamo cambiato noi, ma certo non siamo riusciti a trovare una storia comune con i contadini (e gli asceti?) che ci circondavano. E loro si sono ribellati. E la storia ha poi portato guerre e teocrazie in quelle terre. Non abbiamo lasciato quasi niente in eredità ai nostri figli.

Fuori della Libreria Edison c’è un uomo che vende FuoriBinario, giornale di strada. Lo evito con imbarazzo. Poi penso: asceta involontario….come le migliaia e migliaia di persone che continuano ad attraversare il deserto per cercare di raggiungere il nostro. Molti non hanno scarpe ai piedi, vanno a piedi nudi sulla sabbia, ma vorrebbero avere un paio di scarpe.

I pensieri di Folco


Non so, Folco. Dici, come se fosse un inciso: ‘Io sono una frode’. Lo siamo tutti, immagino. Chi più, chi meno. Mi piaci. A istinto, a pelle. Non hai fatto il monaco e nemmeno l’asceta. Sei venuto via dall’India con un aereo, vai da ‘Occupy Wall Street’ in taxi. Immagino la grande casa di Bellosguardo. Scrivi e pubbliche un libro. Che deve essere venduto. E’ economia (lavoro, salario, profitto, meccanismi che hanno dato e tolto benessere). Rubarlo è antisistemico? Si può rubarlo? Un asceta lo ruberebbe? Folco distribuirebbe pagine gratis all’angolo di una strada? Sì, penso di sì.
San Casciano in Val di Pesa, 22 novembre









lunedì 21 novembre 2011

Sviluppo umano?

Fuori tema. Si muore di nuovo in piazza Tahir al Cairo. C'è un cambiamento epocale che sta accadendo, è già accaduto, in Nordafrica e nel Medioriente. I ragazzi vogliono solo la libertà. E, per la prima volta nella loro storia, si sentono padroni del loro destino.
Guardo l'immagine di un ragazzo che alza il suo cellulare al di sopra del corpo di un compagno per continuare a filmare. E' un'immagine straordinaria. Un simbolo reale. E' accaduto in Siria. Chi a sua volta ha filmato il ragazzo è stato capace di far arrivare il video fino a noi.
Tutti noi sappiamo che l'autunno delle rivolte sarà duro e freddo. Ma questi ragazzi e queste ragazze non torneranno a casa. Qualcosa è accaduto. Questa è una rivolta modernissima e ottocentesca. E' il 1848. E' il 2011. Una grande anno. Bello e terribile.

Mi sento fuori tema a dire che è stato appena pubblicato il libro: 'Politiche per uno sviluppo umano sostenibile'. Titolo complesso e gelido. Spiega in quattrocento pagine teoria e pratica dello sviluppo umano, un'attenzione che mette l'uomo al cento della politica. Il libro è stato curata dall'economista Enrica Chiappero Martinetti.

Io ho fatto l'intruso. Ho intervistato, per questo libro così serio, Mario Dondero, un grande fotografo di 84 anni sulla bellezza.  Ho chiesto ad Alex Zanotelli, prete del rione Sanità a Napoli, cosa pensasse della ricchezza. Ho cercato di capire dalle parole di Giovanni Andrea Cornia come le disuguaglianze condizionino la democrazia. Ho ascoltato Michele Nardelli dirmi che 'la parole valgono più dei fatti' e mi sono trovato d'accordo con lui. Enrico Giovannini, presidente dell'Istat, mi ha spiegato ancora una volta le storture del Pil. E Maria Pace Ottieri ha raccontato dell'universo dei ricchi e del mondo dei poveri.

Il muro di Naletale


Sono orgoglioso della copertina del libro: è una mia vecchia foto, la muraglia di Naletale, una delle duecentocinqua zimbabwe, città di pietra, sorte fra Mozambico, Botswana e Zimbabwe. Attorno all'anno Mille popoli africani eressero grandi città di pietra. Sono un'opera meravigliosa. Dicono della grandezza dell'Africa.

Tutto questo per dare solo in fondo, da pessimo giornalista, la notizia che il libro verrà presentato a Roma, alle ore 19 di mercoledì 23 novembre, alla libreria Griot, a Trastevere, via di Santa Cecilia, 1/A.
San Casciano in Val di Pesa, 21 novembre

venerdì 18 novembre 2011

Metti, una sera a Bagno a Ripoli

Sylla al bar Casa

Sylla si alza in piedi. Ultimo intervento della serata organizzata da Emergency e l'associazione Transafrica. Ha qualcosa di impietoso il rituale degli 'incontri pubblici'. Ora penso che noi, che abbiamo parlato prima di lui, siamo sempre rimasti a sedere. Interpreto i segni dell'Africa: c'è un 'consapevole' rispetto per chi ascolta. Il nostro dna lo ha smarrito. Anche la sua eleganza è un 'rispetto'. Ha messo gli abiti migliori. Donati dal comune dell'Impruneta. Una giacca impeccabile. Perfino un cappello a proteggere la testa rasata. Fa freddo. E' il primo suo inverno sulla sponda nord del Mediterraneo.

Abbiamo parlato di 'guerra in casa nostra'. Le guerre sono molto di più di un battito di ali di farfalla. Si combatte in Libia e la guerra arriva subito in casa nostra.

Ecco il racconto di Sylla come è stato ascoltato da un piccolo gruppo di persone.

'Mi chiamo Sylla Mamourou. Ho ventisette anni. Sono maliano'. Sillaba le parole, si scusa di non parlare italiano. L'interprete traduce. Una parola per volta. C'è un'aria sospesa nella sala della Casa del Popolo di Bagno a Ripoli. Sala spoglia. 'Libica', direi.

'Dodici anni fa ho lasciato il mio paese per cercare un futuro. Sono andato in Libia'.

Io conosco le piste del deserto che questo ragazzo a percorso a quindici anni. Immagino i suoi passi. So su quali camion è salito. Intuisco le angherie che ha subito. Ne vedo l'andare silenzioso. Una paura negata e presente.

'Sono arrivato in Libia dodici anni fa', ricorda.
'Ero tranquillo in quel paese. Ho cambiato molti lavori. Ho conosciuto Andrea mentre facevo il barista al bar Casa di Tripoli. Non mi capitava spesso di parlare francese. Abbiamo parlato un po'. Ci siamo fatti delle foto. Alla fine, Andrea mi ha lasciato il suo numero di telefono. Io l'ho messo nella mia agenda, ma mai avrei pensato che un giorno lo avrei potuto chiamare. Io stavo bene in Libia. Il lavoro c'era. Avevo conosciuto lì mia moglie. Non avevo alcuna ragione per tentare di andare verso l'Europa'.

Dalla vetrata del bar Casa


'Poi è venuta la guerra. Noi non capivamo. Sono passate alcune settimane. Il lavoro non c'era più. E una notte sono venuti i soldati di Gheddafi. Cercavano mercenari, cercavano nemici. Noi spiegammo che eravamo lì solo per lavorare. Ci caricarono a forza su dei camion. Eravamo centinaia. Africani. Ci portarono al mare. C'era una barca e ci obbligarono a salire a bordo. Noi non volevamo, loro ci costrinsero. Qualcuno di noi lottò. Cinque africani furono uccisi. Io venni ferito da colpi di coltello alla mano e alle gambe. Ci presero ogni cosa. Soldi, abiti, oggetti. Tutto quello che avevo creato in dodici anni di vita in Libia. Mi rimase la tristezza'.

Ecco, l'interprete si ferma. Non riesce ad andare avanti. Piange. Si riprende.

'La traversata durò due giorni e due notti. Pensavamo di esserci perduti. Ricordo la paura. Mia moglie perse il bambino. Poi apparve terra. Dissero che era Lampedusa. Era il 25 maggio del 2011. Fummo salvati, accolti, curati. Mangiammo. Non pensavamo. Rimanemmo sull'isola due giorni. Ci trasferirono in un posto chiamato Manduria. Mia moglie contrasse una brutta malattia agli occhi. Fu ricoverata in ospedale. E' rimasta quasi un mese in ospedale. Poi venne un uomo che ci disse che noi saremmo andati a Firenze'.

'Arrivammo a Firenze. Ci portarono subito in questura. E lì ci annunciarono che noi saremmo andati a vivere in un paese chiamato Impruneta. Avevo il numero di Andrea. Chiamai una sera. Lui non mi riconobbe. Non si ricordava. Mi confuse con un altro. Chiamai ancora il giorno dopo con un'amica italiana. Che spiegò. Poi andai a casa sua. E lui ricordò il nostro incontro. Ora sono qui. Grazie per avermi ascoltato'.

Immigrato africano al lavoro in oasi della Libia. Foto scattata prima della guerra

Sylla è nel limbo dei richiedenti asilo. Sono mille e trecento uomini e donne nelle sue condizioni in Toscana. Dicono che siano 25mila in Italia (e l'ex-ministro Maroni disse che sarebbero arrivati in due milioni). Come 'denaro in tasca', riceve due euro al giorno dalla Regione. La Regione paga la sua ospitalità e il cibo. Sylla con la moglie e altri migranti sta in un affittacamere dell'Impruneta. Nei primi sei mesi gli era proibito lavorare. Quando avrà un nuovo permesso temporaneo potrà lavorare.

Nella notte risaliamo assieme le colline di Firenze. Riaccompagno Sylla e sua moglie alla loro stanza. Sylla siede davanti. Dice: 'E' stata una buona serata'.
San Casciano in Val di Pesa, 19 novembre











giovedì 17 novembre 2011

Il ragazzo del bar di Piazza dell'Orologio






 Arrivo sempre in ritardo. Capita che la tecnologia sia più veloce del mio tempo e che io adori chi arriva in ritardo. Avverto solo ora per un appuntamento questa sera.
Stasera, alle ventuno, l'Associazione Transafrica, alla Casa del Popolo di Bagno a Ripoli (via Roma, 124) organizza un incontro su 'La guerra in casa nostra'.

Non temete, oltre le parole c'è anche musica. Può valer la pena venire. Soprattutto c'è Sylla. Che, forse, ama più il silenzio.

Ho conosciuto Sylla al bar Casa di Tripoli, vecchio bar 'italiano' di piazza della Torre dell'Orologio. Era il nostro bar preferito. Uno dei luoghi che amiamo della capitale della Libia. E'un ragazzo maliano, Sylla. Bello e spavaldo. Scambiavano sempre due chiacchiere. Ci scattammo anche delle foto. Uno dei tanti incontri fuggevoli dei viaggi.  Sylla era in Libia da oltre dieci anni. Migrante lungo le rotte del deserto. A cercare qualche futuro in una terra araba. Lui, ragazzo nero in un paese percorso dall'anima nera del razzismo. Posso solo immaginare i suoi guai.

Poi è stata la guerra. Incomprensibile se vista con gli occhi di un ragazzo che fa il barista a Tripoli.

Poi, una notte, i soldati di Gheddafi hanno fatto irruzione nella sua baracca e lo hanno caricato, assieme a mille altri, sui barconi del Mediterraneo.
Il resto appartiene al dramma 'normale' di questi anni. La traversata, la sopravvivenza, lo sbarco, Lampedusa, i centri di smistamento, infine l'accoglienza, precaria, ma preziosa, della Regione Toscana.

Sylla ha lasciato tutto in Libia. Ma in una tasca c'era il foglietto con il mio numero di telefono. Coincidenze delle storie: la Regione Toscana trova un tetto per un migrante alla ricerca di un asilo ad appena dieci chilometri da casa mia. All'Impruneta. Io abito a San Casciano in Val di Pesa. Sylla telefona in una notte d'estate. E io non ricordo il suo nome. Non ricordo. Fino a quando non arriva a casa mia....ecco, Sylla, ora lo riconosco...ricordo..

Sylla appartiene ancora alla moltitudine dei migranti. Ma ora, per me, è un migrante. Uno solo. In carne e ossa, testa e cuore, africanità e colore della pelle. E qui sta la differenza. Il problema. Il confronto senza parità. E' un migrante e basta.

L'Associazione Transafrica si occupa di Sahara, di Mali. Hanno conosciuto Sylla. E hanno pensato che parlare di questa storia fosse utile. Partire da una storia solitaria e concreta (quale sarà il destino di Sylla? Che cosa potrà fare qua? Cosa è giusto?) per raccontare una storia più grande. Che è priva di confini. E attraversa la nostra anima. Sylla è un frammento reale della guerra combattuta in Libia.

LA GUERRA IN CASA NOSTRA - RICADUTE SUL SOCIALE DELLE SPESE MILITARIGiovedì 17 novembre ore 21.00 - S.M.S. di Bagno a Ripoli
Associazione Transafrica invita i propri soci e 
simpatizzanti il giorno 

giovedì 17 novembre ore 21.00 

presso l'S.M.S. di Bagno a Ripoli - Via Roma 124 

all'incontro organizzato in collaborazione con con la 
Commissione per la Pace del Comune di Bagno a Ripoli, l'SMS 
di Bagno a Ripoli ed Emergency sul tema 

La Guerra in casa nostra - ricadute sul sociale delle spese 
militari 

Saranno presenti: 
Paolo Busoni - esperto in storia della guerra e socio 
volontario di Emergency 
Andrea Semplici - scrittore giornalista free-lance 
Sylla Mamourou - rifugiato politico dalla Libia 

contributo musicale di 
Anna Granata - voce 
Fabrizio Bai - chitarra 
San Casciano in Val di Pesa, 19 novembre

mercoledì 16 novembre 2011

Quasi inverno. A Pescia. Chiacchiere sul giornalismo


Primi giorni di freddo. Un liceo di Pescia, città della provincia toscana. Dedicato a Carlo Lorenzini, più noto come Collodi. Chiacchiere sul giornalismo, in un antico refettorio, con gli studenti. In realtà un monologo. Quasi due ore. Arrivo in ritardo. Mi sento fuori posto. Sono molti. Improvviso silenzio, quando come un profugo, carico di borse, entro nella sala. Cosa posso raccontare a dei ragazzi? Che mestiere ho fatto in questi anni?

Non ho molto da dire. La mia storia è particolare. Ai margini del grande mondo del giornalismo. Fuori dai giornali dal 1991. Da vent’anni, mi sorprendo del tempo passato. E ora le riviste per le quali ho lavorato non esistono più o hanno cambiato anima. Travolte dalla crisi e dalla tecnologia. Fatico a confrontarmi sull’impossibilità di vivere di giornalismo.

E cos’è giornalismo oggi? Sono giornalisti i citizen journalists? Chi sono i videomakers che postano i loro racconti visivi su you reporter? Mi dicono che Ireport, piattaforma della Cnn, ha 477 mila collaboratori, Allvoices.com ne ha 300mila. Alluvione di notizie. Chi è giornalista? Gli editori sono felici del citizen journalism: è gratuito. Però i ragazzi di Pescia mi chiedono di Tiziano Terzani e di Ryszard Kapuscinski. Io parlo di Ettore Mo e di Paolo Rumiz. Il più giovane è Paolo che ha più di sessanta anni. Dico, perché lo penso, che Bernardo Valli, 81 anni, sia stato uno dei pochi inviati che ci ha fatto capire qualcosa di quanto stava accadendo in Libia. Insomma, i ‘vecchi’ sono ancora i migliori?




Alcune parole-chiave, lasciate a mezz'aria nel vecchio refettorio.

Bulimia, ad esempio. Ne parleranno, fra pochi giorni, anche all’incontro annuale del Redattore Sociale (25-27 novembre, a Capodarco, come ogni anno). Ogni giorno su YouTube vengono postati così tanti video che occorrerebbero otto anni per vederli tutti. You Tube ha annunciato che, via web, sarà possibile collegarsi a cento televisioni di grande professionalità. La mia televisione, mi dicono, ha 900 canali. In Italia ci sono 15mila blog e, ogni giorno, vengono messi on-line 10mila post. Alla fine credo che nessuno guarderà più nulla. Il rumore asfissiante diverrà uno schermo grigio per il buio dei nostri occhi.

Giusta distanza. Giusta distanza, un corno. ‘Questo mestiere non è adatto ai cinici’, frase celebre di Ryszard Kapuscinski. Aveva ragione, Kapu: non esiste una giusta distanza, se non quella che ti detta la tua coscienza. Il giornalismo è empatia e passione. Non posso chiedere obiettività a un giornalista, chiedo e pretendo sincerità. Un giornalista è, sempre parole di Ryszard, un ‘traduttore’.

Punto di vista. Qui è necessario il Piccolo Principe. Sembra un cappello il disegno che viene mostrato nelle prime pagine del più bel libro mai scritto. Sappiamo che così non è: in realtà, è un pitone che inghiotte un elefante. Cosa occorre per vederlo e capirlo? Cambiare punto di vista. Capire che esistono differenti punti di vista. Ascoltare soprattutto chi offre altri punti di vista.  

Cautele. Diffidate. Siate diffidenti. E insoddisfatti. Google,  Twitter e Facebook sono strumenti, non sono ‘strumenti per la democrazia’. Lo sono stati in Egitto e in Tunisia, ma senza movimenti reali non sarebbero stati sufficienti. I regimi erano marci. Twitter, invece, non ha abbattuto la tirannia degli ayatollah. In Russia, internet è stato addomesticato. In Cina, complici i grandi provider, è diventato arma per individuare il dissenso. In Egitto, ora, obbligano i bloggers a registrarsi con nome e cognome: i nuovi militari senza volto hanno imparato la lezione. E non va dimenticato che Google e Facebook sono due multinazionali che vogliono ricavare denaro da ogni nostro click. A loro dobbiamo affidare il destino della democrazia?

Falsità. Sono sempre esistite. I nuovi media le amplificano. Nessuno, che non sia molto esperto, conosce le fonti dei nuovi media. Più di venti anni fa, 22 dicembre del 1989, i morti di Timsoara, città della Romania, fecero inorridire l’Occidente per la ferocia della dittatura di Ceausescu. Era un regime infame, ma quei morti non ci furono. Se ne accorse solo un giornalista svizzero dopo che la grande stampa se ne era andata. Ben pochi poi scrissero che quei morti non erano stati uccisi dai sicari di Ceausescu. Ma quell’eccidio inventato fu un tassello indispensabile della macchina che abbattè e uccise Ceausescu. Che fosse vero o meno, dopo, che importanza poteva avere?
Non ci sono stati i 10mila morti di Bengasi, come sosteneva la Tv al-Arabya nei primi giorni della rivolta della Cirenaica. Eppure tutti vi hanno creduto. La bugia ha retto pochi giorni, eppure questa falsità è scivolata in un nulla inquietante. L’opinione pubblica era convinta: era necessario un intervento armato per arrestare i massacri e ‘difendere i civili’. Per liberarsi dei dittatori è legittima la menzogna? Scrive Paolo Rumiz ('Maschere per un massacro', un vecchio libro sui Balcani): a Timsoara scattò 'la soddisfazione di aver trovato esattamente ciò che si attendeva di trovare'. Adrenalina, stanchezza e velocità aiutarono a costruire l'imbroglio. E oggi? Oggi la velocità della comunicazione ha sostituito i suoi contenuti.
Lacerazioni sul confine della verità/falsità e giustizia.
A chi e a cosa credere?

Non c’è un finale alle parole su giornalismo. Non c’è un mio finale. Con i ragazzi non potevo essere rassicurante come avrei voluto. Spero che riusciranno a raccontare la loro piccola città. Ho fiducia in loro.

Alla fine un paio di domande. Su Tiziano Terzani e sull’Africa. Le ragazze più spavalde dei maschi.
Pescia, 15 novembre


Giancarlo Siani (da wikipedia)


ps: e io ho dimenticato di ricordare Giancarlo Siani. Aveva 26 anni quando fu ucciso dalla camorra. Era un giornalista 'abusivo' del Mattino di Napoli. Non aveva idea della Giusta Distanza, le storie dovevano essere raccontate. E lui sapeva raccontare. I ragazzi con i quali ho parlato non erano nati quanto lui morì. 

domenica 13 novembre 2011

Luoghi di resistenza inconsapevole/La stiratrice pasionaria

Anna nella sua bottega


Sono le foto e le bandiere ad attirarmi dentro una bottega (saracinesca sbilenca, vecchia porta, antiche tendine) di una stiratrice. Non ho panni da lavare, mi sorprendo a curiosare, stupito, fra foto di Che Guevara, ritratti di Moni Ovadia e Andrea Zanzotto. Ci sono anche immagini di Prato della Valle, la più bella piazza di Padova. E ritratti di animali storici della strada: cani e gatti dei suoi clienti. Fra i vestiti appesi alle grucce, spiccano bandiere che ricordano i referendum contro il nucleare e per il bene comune dell’acqua. Anna è sola. Tira avanti questa lavanderia da quarant’anni. Ha settantacinque anni. ‘Settantaquattro’, si corregge. Siamo in via Euganea. Centro di Padova. Cinquecento metri dal Duomo.

Passo un’ora nel suo negozio invaso da giacchette, pantaloni, cappotti. Anna non smette di stirare con il suo ferro a vapore. Entrano clienti. Anziani, giovani, donne. Anna li conosce uno per uno. Alcuni sono immigrati. Una donna con il velo. Non rilascia contromarche, né numerini. Non segna i capi. Sa benissimo a chi appartengono. Ogni incontro è una conversazione, un’attenzione. Non è mai accaduto che non abbia fatto uno scontrino.
Attorno all’asse da stiro, decine e decine di libri. Vecchi libri. Filosofi greci, Giuliano Scabia, Amendola, Zanzotto. Poeti, saggisti, scrittori. Libri che Anna regala. ‘Provo a informare’, dice.  ‘Dei libri, di solito, si è un gelosi. Io preferisco donarli. Devono circolare. Essere letti’.

Il dono di un pittore


Filo di perle. Orologio femminile dorato. Vestito nero. Pantofole azzurre ai piedi per resistere alla fatica. Famiglia di comunisti, quella di Anna. Nel Veneto bianco. Suo padre, legnaiolo e carbonaio, ero conosciuto come ‘Soviet’. Tutto il caseggiato dove abitava (quartiere del centro, lontano dalla periferia popolare) era abitato da ‘comunisti’.  Coincidenza astrale curiosa in questa città così conservatrice.
A scuola avverte le discriminazioni:  ‘Ai poveri scrutavano i capelli per trovare i pidocchi. Un’ispezione che era risparmiata ai figli di ricchi’.  Primo lavoro a dodici anni: incartava caramelle in un laboratorio. ‘Non ero adatta, finiva che me le mangiavo’. Veniva pagata con cartocci di caramelle rotte. Comincia a lavare e stirar panni.
Si ritrova sotto i portici di Padova quando le camionette della celebre di Scelba caricano i cortei. Anni ’60. Tornò a casa con i segni dei manganelli: ‘Te sta ben’ disse la madre. Iscritta alla Fgci, al Pci. Qualche simpatia per Lotta Continua. Nessuna per Toni Negri, professore a Padova.  Anni intensi. ‘Di Roma conosco solo piazza San Giovanni e il Circo Massimo’, luoghi delle grandi manifestazioni. ‘Tempi passati. Ora penso di essere moderata. Ho smesso di comprare il Manifesto. Mi accontento di Repubblica. Ma sto a sinistra. Da qualche parte’.

Il negozio di Anna


Prima che me ne vada mi regala un libro su Che Guevara. Sa che ne sto scrivendo una piccola storia.

Tre anni fa, a 71 anni, Anna ha cominciato a studiare violino. La maestra viene in bottega. Anna depone il ferro da stiro, mette la kefiah palestinese, e suona.
Padova 12 novembre

  

venerdì 11 novembre 2011

Padova/L'orto dell'ingiustizia



Gianni Boetto e l'orto degli ingiusti

Argine del canale che, confine del centro di Padova, collega il Bacchiglione allo Scaricatore. Un giorno di novembre. Una sponda lunga due, forse tre metri, e larga meno di cinquanta centimetri. Un orto. Cavoli invernali. Melanzane che insistono a fiorire con il caldo di questi giorni. Ben sette piante di vite a disegnare alcuni archi. Un articolo di giornale, appeso alla ringhiera, avverte: 'Orto degli ingiusti'. Un tempo, fino a due anni fa, qui c’era un pioppo. Anzi una pioppa. ‘E un giorno apparirono operai del Comune e, senza darci il tempo di capire costa stava accadendo, tagliarono la pioppa. Aveva cento anni’, racconta Gianni Boetto, 65 anni, proprietario e gestori di un antico caffè proprio davanti all’argine.

Storia minima. Fu il padre di Gianni ad aprire il caffè.  Nel 1936. La pioppa era già lì. Dagli inizi del ‘900. Caffè elegante. Quasi asburgico, ma senza pomposità. E' come se Gianni ci offrisse il caffè a casa sua. Tavoli da casa, sedie da casa. Barattoli du vetro con i biscotti. Oggetti personali disseminati per la grande sala luminosa. Un buon posto.

Il quartiere era innamorato di quel vecchio albero. Regalava ombra. E compagnia. Una donna, centenaria, si ricordava perfino il giorno in cui era stato piantato. ‘Abbiamo vissuto l’abbattimento della pioppa come un’ingiustizia’, dice Gianni. E fu lui a inventarsi una singolare protesta: comincio a piantare pomodori e zucchine, melanzane e insalate là dove erano le radici dell’albero. Poi mise anche le viti di prosecco. Pensò il nome: orto degli ingiusti.

Gianni Boetto nel suo caffé

La malinconia di un quartiere, il lutto per l’albero tagliato, è diventato una piccola rivincita della vita. Della natura. Gli arigini del canale sono spogli, curati con disattenzione, in parte cementificati. Il canale, negli anni medioevali, mi dicono, difendeva la città dalle piene autunnali e invernali. Le semine di Gianni Boetto sono il ricordo della pioppa e la cura di un quartiere per un pezzetto di terra.
Padova, 11 novembre

giovedì 10 novembre 2011

Storie Minime/Lo striscione di Matera

Lo striscione lo scorso 15 ottobre a Roma



In giorni in cui le storie sono troppo grandi per poter essere comprese appieno e fanno venire in mente domande un po’ sceme….del tipo, ma davvero il nostro destino è appeso agli scambi di Borsa o al mercato dei Btp? Davvero non c’è più spazio per la politica e la salvezza viene dalla ‘tecnica’? Se un marziano atterrasse sulla Terra e si trovasse a passare nell’arena urlante di Wall Street o di Piazza Affari con tutti quegli ometti gesticolanti o affannati davanti a una selva di computer non penserebbe che sono più saggi i devoti del voodoo o gli indios yanomani che danzano in cerchio? Chi è fuori di testa? Non sarà mai possibile cambiare 'punto di vista'?
 Chi è più utile alla società: il gestore (che ha un nome e cognome, per Dio) di un hedge-fund che seguendo l’istinto di un robot decide che speculare rende l’uomo felice o il ragazzo che si inventa una vita andandosene in giro in autostop per il mondo dopo aver lasciato un rassicurante lavoro. Bien,questo è stato un piccolo sfogo ingenuo nel quale mi gioco ogni credibilità giornalistica. Pazienza.

Io volevo solo accettare il dono di Adele. Che mi ha raccontato una Storia Minima. Ho pensato che, in questi giorni, è saggio raccontare piccole storie. Per stare ai lati della grande storia. Ignorarla per un minuto. Dimenticarla senza dimenticare. Difficile, è vero.

Intanto questa è la piccola storia di uno striscione.

Chiede Adele: ‘Ti ho mai parlato del nostro striscione?’

E' nato nel marzo del 2003, lo striscione. I ragazzi di Matera dovevano partecipare a una manifestazione a Taranto contro la guerra in Iraq. Non riuscivano a decidere cosa scrivere sulla stoffa bianca che nemmeno avevano comprato. Passarono una serata a cercar parole. Alla fine qualcuno sbottò. Ne uscì un’imprecazione: ‘VAFFANGULAMMAMT’.
‘Ci siamo guardati ridendo – scrive Adele – e abbiamo pensato che non avremmo trovato niente di meglio’. 

La mattina dopo, Nancy è andata al mercato e, con cinque euro, ha comprato il tessuto. Adele, dal mesticatore, ha preso le bombolette spray.
‘Allora abitavo nei Sassi –ricorda - Abbiamo steso nella piazzetta sotto casa il telo, ho calcolato lo spazio che ciascuna lettera doveva avere, abbiamo usato lastre in plexiglas come mascherina e aggiunto due apostrofi per dare un equilibrio visivo’.

A Taranto, il giorno dopo, i ragazzi di Matera erano magnifici. Con lo striscione, gli strumenti musicali, lo slogan. "...Via dai nostri mari, le navi militari, vogliamo solo cozze e calamari...". Andavano in giro distribuendo un volantino con una vignetta e un articolo di Vauro che raccontava le ore precedenti la guerra a una bambina convinta di vivere nella città delle favole. Quella città era Baghdad.

In autunno, novembre del 2003, lo striscione riappare sulla barricata che i ragazzi alzarono per bloccare il traffico della statale 99. Il Blocco 99 era il presidio che voleva impedire la costruzione in Lucania di un sito per le scorie nucleari. Lotta vittoriosa. Lo striscione prese fiducia in sé stesso. Divenne un talismano. ‘Da allora non si è più fermato, ha partecipato a tutte le più grandi manifestazioni degli ultimi anni’. Adele ne è fiera: ‘Lo ritengo il mio capolavoro. E’ una reliquia sacra, avrà un filo tutto suo con il quale potrà svolazzare quando deporremo tutti gli striscioni nel museo della Resistenza durante il ventennio di Berlusconi’.

A Roma, nel 2004, a una delle più grandi manifestazioni contro la guerra, suscitò l'ira di una delle giornaliste femministe più intransigenti, Ida  Dominijanni.  ‘Ida si rivolse a Piero che stava accanto allo striscione e quasi lo minacciò: ‘Ci scrivo un articolo!’. Lui chiese:   ‘Su quale giornale?". ‘Il Manifesto’. Bene, si tranquillizzò Piero: ‘E’ l'unico che leggo!’’.

Era a Roma anche lo scorso 15 ottobre. Indignato. ‘Quando ci vedremo devo insegnarti a pronunciare questa parolaccia così sbandierata – promette Adele - Cantata a squarciagola, al ritmo della samba, tutti in coro, è davvero liberatoria...’ooooh VAFF'ANGUL'AMMAMT’.
Padova, 10 novembre



lunedì 7 novembre 2011

Balcani/Il poeta e il fotografo

Adesso faccio raccontare ad altri. Ho letto questa storia sulle pagine dell'Osservatorio Balcani e Caucaso. Sono parole scritte da Mario Boccia, il migliore fra i fotografi che hanno vissuto la storia dei Balcani di questi ultimi venti anni. Un amico. Assieme abbiamo viaggiato, scritto e fotografato. Di Afriche. Di Palestina. Poi lui mi ha portato nella sua terra. A  Sarajevo. In Bosnia. Mi ha aiutato a guardare quelle valli. Gli chiedo scusa se a volte sono stato distratto. Ma i suoi occhi mi hanno insegnato molto. 
Non ho fatto in tempo a conoscere il poeta Izet Sarajlic (chiedo ancora scusa a Mario, la mia tastiera non ha le grafie del serbocroato). Ora avverto questo mancato incontro come un'assenza. Poi guardo la foto che ha scattato Mario: gli amici di Izet lo ricordano festosi. E questo mi è subito piaciuto. Il ricordo di chi non c'è più che diventa ragione di allegria, di compagnia, di presenza. Ci sono i Balcani in questa storia racconta. Grazie per avermi concesso di farla leggere anche voi. Con una preghiera: andate a leggere le poese di Izet Sarajlic.


Izet Sarajlić (Foto di Mario Boccia)



Dal 1993 durante l’assedio di Sarajevo al 2002 anno della morte dell’amico e poeta Izet Sarajlić. Mario Boccia ripercorre le tappe di un’amicizia particolare, dei rapporti tra Izet e l’Italia, degli amici in comune e delle riflessioni sulla Bosnia martoriata dalla guerra e dal nazionalismo

1993 - Il fratello di Razija
La prima volta che incontrai Izet Sarajlić fu a Sarajevo alla fine del 1993. Erano gli anni della magrezza diffusa. Non per anoressia, ma per costrizione. Mangiare poco e male era un'abitudine quasi collettiva. La magrezza contribuiva a identificare le persone oneste. L'obesità era sospetta. Anni passati a fingere di essere sani, a non sentire la fame per non dargliela vinta. Anni di resistenza.

Per un motivo del tutto personale, di quel primo incontro ricordo soprattutto sua sorella Razija. Sapevo che era stata lei, la sorella del grande poeta, a tradurre in serbocroato (allora si diceva così) le opere di Elsa Morante e di altri autori italiani. Tra tutti, quello che mi avvicinava di più a lei era Gianni Rodari, perché con le sue storie per ragazzi avevo imparato a leggere. Quella donna magra, a letto, assomigliava alla luce dell'unica candela accesa nella sua stanza. Mandava luce viva, anche se tremolante, mentre si consumava.
Guardandola pensavo che, grazie alle storie tradotte da lei, potevo avere avuto sogni in comune con i ragazzi di Sarajevo, Belgrado o Zagabria. E ora che sognavano quegli ex-ragazzi alla fine del 1993? In altre parole, che avrei fatto io al loro posto?
Non conoscevo ancora le poesie di Izet Sarajlić. Lui per me allora era il fratello di Raza. Così iniziai a leggerlo per curiosità e poi divenne imprescindibile.

I suoi versi, anche quelli scritti prima della guerra, mi aiutavano a capire le persone che incontravo, i loro sentimenti, l'estraneità alla guerra della bellezza. E poi c'era la cultura di un secolo alla fine, in ogni emozione, in ogni nome citato. C'era lidea di un mondo diverso che non era riuscita a realizzarsi, ma che ha lasciato il gusto amaro del riconoscersi a chi ci ha creduto, si è messo in gioco e ha perso.
Il '900 era il suo secolo ancora più che il mio. Firmando una dedica sul libro “Qualcuno ha suonato” scrisse la data in un modo particolare: “1999+2”, invece che 2001. Mi sembrò buffo, invece era un segno profondo. Scoprii dopo che lo faceva sempre. Era una scelta di appartenenza a un'epoca storica. L'identità come libera scelta, anche contro il tempo. Figuriamoci contro le identità nazionaliste imposte dagli uomini che per dividere le persone uccidono e adorano Dei di morte.
La semplicità della sua scrittura mi sembrava preziosa, quanto la bibliografia delle sue citazioni. La Leggerezza e la profondità possono convivere. Il paradosso dellallegria rimane vivo anche nel dolore. Izet voleva farsi capire da tutti (persino da un fotografo).

Nella sua poesia non c'è odio contro un popolo in sé. Non ci sono colpe collettive, ma criminali singoli, magari organizzati in singoli partiti. Non c'è odio nemmeno nelle poesie scritte durante l'assedio, mentre la sua famiglia naturale, come quella elettiva, la comunità degli amici, erano decimate da stenti e omicidi. Riuscire a evitare la trappola della rabbia-giusta, non è semplice, soprattutto quando subisci un'ingiustizia forte.
Izet amava l'Italia, anche se suo fratello a diciannove anni era stato fucilato dagli occupanti italiani. Dai fascisti, precisava, non dagli italiani.
La sua amicizia con i poeti italiani, non era compromessa. Ce l'aveva con loro, certo, ma 'loro' erano i fascisti, gli ustascia, i cetnici; mai gli italiani, i croati o i serbi.
La lettera-video (quasi un testamento) registrata a Sarajevo per l'amico poeta Sinan Gudžević da Sarajevo assediata, è un documento di grande valore etico che tutti dovrebbero conoscere. Come le lettere dei condannati a morte della resistenza italiana.

1997 - “Troppi culi per poche sedie”
Passati gli anni della fame e della morte (non della paura, che Izet non ha mai resa pubblica), arrivarono i giorni delleuforia del primo dopoguerra.
Ottobre 1997, un autobus carico di poeti e scrittori, tre fotografi e qualche giornalista arrivò a Sarajevo passando per Mostar. Era stato organizzato dal Fondo Alberto Moravia, grazie alla tenacia di Toni Maraini (le testimonianze preziose di questo viaggio sono raccolte nel Quaderno 1.98 del Fondo Moravia).

Se guardo le foto scattate in quei giorni, le ritrovo piene di abbracci, sorrisi, alcool e sigarette. Ci sono amici che non si vedevano da anni, altri che avevano passato le linee del fronte per farlo, magari portando convogli di aiuti umanitari, come Erri de Luca. La foto con l'abbraccio tra lui e Izet, mi commuove come allora.
Poi l'incontro al Pen club di Sarajevo, la lettura di poesie a Baščaršija, in un locale dove era allestita una mostra fotografica dedicata ad Alberto Moravia, la visita della città ancora segnata dalla guerra, assieme al generale Jovan Divjak. E il giorno prima a Mostar, con lincontro di lettura nel teatro dei burattini di Hamica Nametak, con Predrag Matvejević al pianoforte e la foto ricordo con Emir Balić (la rondine di Mostar), davanti ai moncherini del vecchio ponte tra i quali era stata tirata una passerella provvisoria.

Nellambasciata italiana, aperta per noi, saltarono tutte le formalità diplomatiche. Izet era in vena. Non c'era posto a sedere per tutti noi e lui esclamò: “Ambasciatore! Qui ci sono troppi culi e poche sedie!”, provocando l'imbarazzo del personale e dei primi segretari d'ambasciata (una tipologia umana particolare, quella dei primi segretari, abili a non lasciare traccia perché consapevoli che meno si notano e più fanno carriera diplomatica). Subito dopo, mentre l'ambasciatore Michele Valensise pronunciava il discorso di benvenuto, si sentì un muezzin chiamare alla preghiera, e Izet, subito gridò: “Silenzio! Zitti tutti! … c'è Izetbegović che canta!”. Anche il sindaco di Sarajevo e l'ambasciatore risero (il primo segretario no, perché la battuta gli sembrò sconveniente).


2001 – Premio Moravia a Roma
Salerno è stata la città italiana nella quale Izet Sarajlić ha lasciato le tracce più profonde. La città del suo amico poeta Alfonso Gatto e che gli diede anche la cittadinanza onoraria. Izet è stato l'anima della “Casa della Poesia” di Baronissi, un luogo dincontro per poeti di tutto il mondo. La raccolta di poesie “Qualcuno ha suonato” fu curata e pubblicata dalla Multimedia edizioni, che aveva costruito quel luogo come uno spazio da affidare alla imprevedibile gestione dei poeti stessi, oltre ad organizzare una lunga serie di iniziative pubbliche di diffusione di poesia. Con quel libro Izet vinse il Premio Moravia che gli fu consegnato a Roma, al teatro Valle, il 3 dicembre 2001.
In quelle giornate romane, fu allestita anche una mostra fotografica, con le foto del viaggio della carovana del Fondo Moravia a Mostar e Sarajevo, scattate da Danilo de Marco e Serafino Amato, più le mie, scattate nella guerra.
Quei giorni pieni dincontri di lettura e nuovi amici, mi hanno lasciato tanti ricordi e un buon archivio di fotografie di Izet Sarajlić. Sono le foto usate per i manifesti delle prime edizioni del Festival Internazionale di poesia di Sarajevo, dedicato a lui e arrivato alla decima (e forse ultima) edizione.

Izet che legge i suoi versi, il suo bastone, lui sul palco del teatro, a fianco di Erri de Luca, circondato da poeti nel parterre del teatro. Alcune furono stampate e affisse su cartelloni pubblicitari di sei metri per tre a Salerno. La gente che passava guardava stupita quei cartelloni che non invitavano a comprare niente, ma offrivano poesie e fotografie a chi si fermava.

Gli amici di Izet lo ricordano al teatro Kamerni (foto M. Boccia)

2002 - Sarajevo, le ultime foto
Dieci anni dopo, a Sarajevo leuforia era finita. Vivere il presente del dopoguerra era più difficile che mantenersi in vita schivando pallottole.
La mattina del 6 aprile del 2002 ci sono state celebrazioni ufficiali all'Holiday Inn. Izet era in prima fila, seduto accanto a Danis Tanović, appena tornato da Hollywood, con un Oscar, per il suo primo film “No man's land”.
Il sindaco Muhidin Hamamdžić era emozionato più di Izet, consegnandogli una targa e sostenendolo con un braccio mentre era in piedi davanti al pubblico. Per la prima volta mi sembrò che il bastone gli servisse davvero, non come l'anno prima a Roma, quando sembrava un vezzo. Lo sguardo ironico e disincantato verso i rituali ufficiali, invece, non era cambiato.
Izet non aveva mai lasciato la sua città e anche per questo era premiato, ma non aveva lasciato nemmeno le sue idee, e questo non piaceva al nuovo potere post-bellico.
Gli amici del “Circolo 99” possono testimoniarlo. Tra loro non ci sono patrioti di patrie recenti, ma cittadini globali di Sarajevo e del mondo moderno. Per questo non sono mai piaciuti ai nuovi capi eletti con i criteri dell'appartenenza “etnica”.

Così anche un simbolo di resistenza civile come Izet Sarajlić ha dovuto subire l'umiliazione dello sfratto dalla casa dove lo avevo visto la prima volta, accanto alla sorella. Una delle sue poesie più aspre contro il potere, quasi una maledizione, la scrisse allora.
La sera dello stesso giorno ci fu una bella festa a Skenderija, con gli amici del “Circolo 99”, alcol e sigarette fino a tardi. C'era la migliore gioventù della Bosnia Erzegovina, fino a qualche decennio prima, nel secolo scorso. C'era unex presidente della Jugoslavia (Raif Dizdarević), cantanti d'opera, conduttori tv, un ex generale, ex ministri, tanti amici vecchi e nuovi. E i musicisti, venuti per suonare e cantare insieme.
Dopo le canzoni romantiche tradizionali, mi sorprese sentirli cantare una vecchia canzone pop italiana: “L'italiano” di Toto Cotugno. Cantavano guardandomi con ironia, come se fosse dedicata a me. Poi la sottolineatura sulla strofa “e per presidente un partigiano”, mi ha fatto capire che la dedica era per Sandro Pertini e “Bella ciao”, cantata a seguire, era la conferma.
Questa è stata lultima foto di Izet Sarajlić che ho scattato, a notte inoltrata, il 6 aprile 2002. Pochi giorni dopo cè stato il primo infarto, poi, il 2 maggio, Izet è morto.

Settembre 2002 - Sarajevo
In quattro mesi, Gianluca Paciucci, addetto culturale dell'Ambasciata italiana, gli amici della Casa della Poesia di Baronissi e il Pen Club di Sarajevo, organizzarono un Festival Internazionale di poesia, dedicato a lui. Il Kamerni Teater, vicino alla “Vječna vatra” (la fiamma sempre accesa che ricorda la liberazione della città dalloccupazione nazi-fascista) era il luogo giusto. Arrivarono amici da tutto il mondo: una partecipazione impressionante di poeti e pubblico. Da Jack Hirschmann, poeta americano della beat generation, espulso da tutte le università USA per avere bruciato le cartoline precetto per la guerra del Vietnam a Faheem Hussain, grande fisico pachistano (ne cito solo due agli antipodi geografici per abbracciare il mondo). Sul palco c'era una foto di Izet che sorrideva e guardava i poeti che leggono le loro cose. In una sala attigua al teatro c'era una mostra di mie fotografie, tra Roma e Sarajevo, pace e guerra.

Ho scattato molte foto in quei tre giorni. Una delle mie preferite è quella di Izet che sembra partecipare al brindisi degli amici che lo circondano. La sua foto poggiata su un cavalletto è al centro dellinquadratura e attorno a lui ci sono Jean Philippe dAlembert di Haiti, Agneta Falck, svedese-americana, Alberto Masala, sardo. Izet sembra vivo e divertito, in mezzo a loro.