domenica 31 luglio 2011

Dancalia/Il fattore K

Il paesaggio della Dancalia sta cambiando. Non è solo un deserto, non è più una terra irraggiungibile. Compagnie minerarie hanno costruito un'air-strip, una buona strada sterrata permette di scendere nella depressione dancala in appena cinque/sei ore dall'altopiano. 
I canadesi estrarranno potassio, minerale chiave per le agricolture, dalla Piana del Sale. 
Altri stanno cercando petrolio e oro. Circolano voci attorno al litio. Cambierà il mondo in Dancalia. 
Questo post è stato scritto oltre un anno fa. Quando le compagnie minerarie muovevano i loro primi passi nella Piana del Sale.
E' apparso su Nigrizia nell'inverno del 2010.
Da notare: a gennaio di quest'anno, dall'altra parte della frontiera, in Eritrea, un'altra multinazionale canadese ha cominciato, dopo anni di ricerca, a estrarre ore. Etiopia ed Eritrea, da oltre dieci anni, sono due paese in guerra-non guerra.




La Piana del Sale



Dk-10-01. Il linguaggio delle società minerarie, come tutti i linguaggi tecnici, deve essere decriptato. Niente è trasparente e comprensibile. Gli acronimi non spiegano: è roba da addetti ai lavori. Le due lettere e i quattro numeri indicano un pozzo profondo, trivellato poche settimane fa in un angolo della Dancalia, nell’Etiopia più lontana, a meno di venti chilometri di distanza dall’instabile confine con l’Eritrea.
Il giocimento di potassio (il potassio è K nella tavola degli elementi), frammento di un riserva valutata in 105 milioni di tonnellate, è poco oltre i cento metri di profondità. Il primo scavo è stato completato il 13 luglio scorso. Si è lavorato proprio quando le temperature, in una delle fornaci della Terra, sono insopportabili. In estate, fra maggio e settembre, non si cava più nemmeno il sale in questo deserto, che è una delle più profonde depressioni terrestri. In quei mesi, laggiù, tutto è immobile: nessuna carovana si azzarda ad avvicinarsi alla Piana del Sale. Ma, quest’anno, questo deserto, assoluto e inospitale, è stato popolato da geologi canadesi e olandesi, ingegneri giramondo che hanno trivellato la crosta salina per verificare con i propri occhi l’esistenza di uno dei più grandi giacimenti di potassio al mondo.
Farhad Abasov, riservatissimo amministratore delegato dell’Allana Potash, nuova multinazionale del potassio, non ha nascosto la sua soddisfazione: «Dopo quaranta anni, viene scavato un nuovo pozzo in Dancalia». A leggere i comunicati ufficiali, quanto è stato trovato è superiore alle previsioni più ottimistiche dei geologi canadesi. La corsa mondiale al potassio appare oggi più frenetica dell’antico assalto ai filoni dell’oro in Alaska. E passa anche per le solitudini della Dancalia. Questa è una storia di denaro e potere.
Mi sono imbattuto nell’Allana Potash, mentre stavo scrivendo un romanzo ambientato in Dancalia. Avrei dovuto accorgermene ben prima. Durante il mio ultimo viaggio, lo scorso febbraio, avevo pur visto ingegneri al lavoro con il teodolite e caterpillar cinesi sbancare intere colate di lava per costruire nuove strade. C’era già un micro villaggio di container, destinato a ospitare i futuri trivellatori. Ma solo ora, grazie al web e ad amici esperti della storia della Dancalia, ho messo in fila i protagonisti di una storia durata cento anni. Una storia in una terra che è difficile anche immaginare. Un deserto di lava, sale, geyser, polvere, potenze geotermiche. Un deserto di vulcani e fondali marini riemersi. Eppure, i potenti degli affari hanno avuto tempo e occhio anche per queste solitudini.

Il vecchio villaggio minerario italiano


Cominciarono gli italiani….
Questa storia ha mosso i suoi primi passi un secolo fa. Furono due fratelli, a loro modo straordinari (geologi autodidatti, avventurieri all’Indiana Jones, cercatori di miniere in giro per il mondo), a rendersi conto che sotto Dallol vi era del potassio. E, speravano, anche molto altro. Erano i fratelli Adriano e Tullio Pastori: arrivati in Dancalia ai primi del ’900, furono forse i primi occhi bianchi a scorgere la terribile meraviglia di Dallol.
Dallol è una sorta di isola ai confini della Piana del Sale, un vulcano bizzarro e fantastico, un’architettura geologica di geyser, acque ribollenti, pinnacoli, micro vulcani, concrezioni saline, pozze dai colori fuori gamma. È attorno a questo isolotto che vi sono i depositi di potassio.
I due fratelli Pastori se ne accorsero e riuscirono, nel 1912, a ottenere una concessione mineraria dal Negus d’Etiopia (che mal controllava questa regione estrema del suo regno, ai confini della colonia italiana dell’Eritrea). La concessione aveva una durata di 35 anni. Un affare troppo grande per i due fratelli. La concessione, senza che nulla fosse rivelato agli etiopici, passò di mano nel 1917: per sfruttare il potassio della Dancalia arrivò una “multinazionale” italiana: la Compagnia mineraria coloniale (Cmc), fondata a Tripoli, in Libia, sede amministrativa a Torino e direzione tecnica ad Asmara, capitale della colonia italiana dell’Eritrea.
La Compagnia era controllata dalla Banca Italiana di Sconto, istituto di credito legato alla grande e nascente industria del nord (Fiat, Ansaldo). Il suo principale azionista si chiamava Giovanni Agnelli, il capostipite. Erano gli anni della prima guerra mondiale e gli industriali del nord (l’amministratore delegato era Riccardo Gualino, fondatore della Snia-Viscosa) trovarono tempo e denaro per occuparsi di una cava in Dancalia. In guerra c’è sempre chi muore e chi fa i soldi.
Il potassio, in quei tempi di conflitto, era merce preziosa. La più grande miniera era a Stassfurt, territorio prussiano, territorio nemico. E il potassio, allora, serviva per fabbricare munizioni. A partire dal 1917, i cavatori di Dallol spedirono in Occidente 20mila tonnellata l’anno di sali potassici. Fu perfino costruita una sorprendente ferrovia a scartamento ridotto, per soli usi industriali, fra il confine dell’Eritrea e le coste del Mar Rosso. La Compagnia è definita «misteriosa», da chi ne ha studiato la storia.
Ma le guerre non durano in eterno. Finito il primo conflitto mondiale, anche il business del potassio dancalo declinò. Gli italiani, per qualche anno, lo vendettero ai giapponesi, ma la Compagnia non era più un grande affare per i magnati torinesi e fu liquidata nel 1929. La miniera fu abbandonata a sé stessa. E nel deserto dancalo furono dimenticati, senza salari né cibo, operai e tecnici. Nessuno ha speso una parola per dirci il destino degli “indigeni” che avevano lavorato a Dallol: gli afar, popolo di quella terra, non hanno mai avuto cantori.
L’ultimo presidente della Compagnia fu Ostilio Severini, un chimico italiano. Un prestanome più che un amministratore, così a occhio. Con una coincidenza: Severini aveva realizzato il primo impianto italiano di fosgene, uno dei gas tossici che saranno riversati sull’altopiano etiopico durante l’invasione italiana.




Gli americani in Dancalia
Tullio Pastori era un testardo. Dopo la chiusura della Cmc, tornò in Dancalia. Nel 1933, vigilia dell’invasione italiana dell’Etiopia, ottenne dal Negus una seconda concessione mineraria. Ma, ancora una volta, era un pesce piccolo: in mano aveva carta straccia. Finì la seconda guerra mondiale. L’Impero africano dell’Italia fascista è già stato spazzato dal 1941.

Nel dopoguerra sono gli americani ad andare in Dancalia. Al posto di Giovanni Agnelli, c’è un uomo che s’è fatto da solo, figlio di un pescatore di Long Island. Si chiama Ralph Parsone, un ingegnere aeronautico. Nel 1944 ha fondato un’azienda di ingegneristica e costruzioni. È un tipo sveglio: ha inventato nuove tecniche di scavo e ha intuito il valore del potassio etiopico. E anche lui ottiene una concessione da Hailé Selassié, l’imperatore, fedele alleato degli Stati Uniti.
In nove anni di prospezioni, la Ralph Parsons Corporation scava 300 pozzi attorno a Dallol. Cercano e trovano il giacimento di potassio. Ma ad Asmara, nei circoli italiani, si è sicuri che, sotto la crosta salina, gli americani stiano cercando uranio (sono i primi anni dell’era atomica e c’è la corsa agli armamenti nucleari). Di certo voci senza fondamento. Ma Ralph Parsons non è tycoon qualsiasi. In passato è stato amico e socio di John McCone, un altro ingegnere californiano, un altro businnesman destinato a diventare prima direttore della Commissione atomica degli Stati Uniti e poi, fra il 1961 e il 1965, anni duri della Guerra fredda, potente direttore della Cia. Proprio negli anni in cui Parsons è al lavoro in Dancalia. Solo coincidenze?
Ma nemmeno la storia della Ralph Parsons finisce bene: i pozzi sono invasi da acque sotterranee; i loro cantieri diventano un obiettivo per la nascente guerriglia indipendentista degli eritrei; i siti aperti presso Dallol sono indifendibili. Così, nel 1967, gli americani devono sloggiare dalla Dancalia in tutta fretta.
Con la Parsons Corporation lavoravano anche aziende canadesi, i cui tecnici sono i migliori al mondo (non a casa in Canada si trova il più grande giacimento di potassio). L’italiano Piero Crossino, uno dei responsabili tecnici della Ralph Parsons, rivela a Luca Lupi, il più scrupoloso dei ricercatori italiani che si sono occupati di Dancalia, di aver il dubbio che i canadesi volessero, in realtà, quasi boicottare il giacimento di Dallol: «Sarebbero crollati i prezzi sul mercato». A rimetterci sarebbero state proprio le grandi società minerarie canadesi.

Ingresso al campo-base dell'Allana Potash ad Ahmed Ela

Il ritorno dei canadesi (e l’arrivo dei cinesi)
Scacciati italiani e americani, in Dancalia ricompaiono i canadesi. Sono cocciuti e riservati. Fanno parte della casta dei supermanager. E sono prontissimi ad allearsi con i cinesi, nuovi protagonisti dell’economia africana. I cinesi investono due milioni di dollari nell’Allana Potasi. Canadesi, cinesi e australiani vogliono scoperchiare tutta la Dancalia per cavarne via le 105 milioni di tonnellate di potassio.
Farhad Abasov, l’amministratore delegato dell’Allana, ha buone ragioni per esaltare la sua società: il potassio è il più universale dei concimi chimici; aumenta il rendimento dei terreni; accresce la resistenza alle malattie delle piante; il suo prezzo si sta di nuovo impennando (ha già raggiunto i 600 dollari per tonnellata e le quotazioni del minerale sono raddoppiate in un anno). E, in questi mesi, è in corso una guerra violenta fra le grandi multinazionali minerarie per accaparrarsi le riserve disponibili di K. Le previsioni di un forte aumento dei consumi di cibo (da parte di cinesi e indiani, soprattutto) e la diminuzione di terre arabili sul pianeta (da un terzo a un quinto di ettaro pro capite in 30 anni) stanno facendo impazzire il prezzo del potassio e dei fertilizzanti chimici.
Cinque paesi (Canada, Russia, Bielorussia, Germania e Brasile) controllano il 97% delle riserve mondiali. Il Canada, da solo, grazie all’immenso giacimento di Saktchewan, ne possiede ben più della metà. E oltre 150 nazioni sono costrette a fare la fila davanti alla porta di questi colossi minerari per avere potassio per le loro terre. Cina, India e Corea stanno comprandosi mezza Africa per coltivare il cibo destinato alla loro popolazione: hanno bisogno di potassio per spremere queste nuove terre.

Appaiono strane 'costruzioni' nella Piana del Sale





Il destino della Dancalia appare segnato. Il risiko minerario dancalo è lo specchio dei nostri tempi: anche indiani e australiani hanno concessioni in Dancalia. I cinesi stanno asfaltando le antiche piste dei nomadi afar e dei cavatori del sale. I canadesi spiegano che il potenziale del giacimento è superiore a quello, grandissimo, degli Urali. Hanno ottenuto una concessione per 150 km2, un quarto della superficie della Piana del Sale.
I documenti dell’Allana Potash hanno un pregio: non sono reticenti e affermano che occorrono investitori (non bastano i cinesi della China Mineral United Management). E allora cercano di attrarre compratori delle azioni della compagnia, magnificando al meglio la loro merce. Per convincere i più dubbiosi, non esitano a sostenere che l’Etiopia è «un paese con una forte crescita economica e un ambiente favorevole agli investimenti» (senza dire che sta quasi in fondo alla lista delle nazioni per sviluppo umano: dodici posizioni all’ultima). Dicono che in Etiopia non c’è corruzione. E rassicurano che in Dancalia «non esistono problemi legati a questioni ambientali». Come dire: in uno dei luoghi più fragili della terra, nessuna emergenza ambientale può ostacolarci.
Insistono poi sulle «grandi potenzialità» dell’investimento e sul «facile accesso» ai porti sulla costa del Mar Rosso per l’esportazione del potassio. Osano addirittura segnare sulle loro mappe il tracciato della ferrovia fino alla baia di Marsa Fatma (ricalcando quello percorso dagli italiani). Peccato che non dicano che, fra il giacimento e il mare, c’è il confine con l’Eritrea, che quella frontiera non è mai stata veramente demarcata, e che vi sono schierati eserciti in armi, in un perenne stato di guerra-non guerra fra Addis Abeba e Asmara. Tanto varrebbe dire che da quella parte non si passa. A meno che – e qualche circolo diplomatico già lo sussurra – l’Eritrea non venga meno alla sua intransigenza e bellicosità, convinta dal denaro figlio del potassio. Potenza degli affari!
Altro dettaglio non irrilevante: la Allana Potash avverte che la cava avrebbe il più basso costo di gestione al mondo. Ovunque occorrono soldi per cavare potassio, ma in Etiopia il costo del lavoro è «significativamente più basso».
La galleria fotografica offerta dal sito dell’Allana Potash è accurata e gli investitori possono ammirare le meraviglie geyseriane di Dallol. Le didascalie, però, rasentano l’ineleganza, quando avvertono: «È nostra proprietà».
Un’ultima curiosità: fra i direttori della società canadese, oltre a grandi esperti di oro, potassio e uranio, c’è un generale in pensione. Non uno qualsiasi, ma Lewis Mac Kenzie, ex comandante, molto discusso, delle Nazioni Unite a Sarajevo. Che ci fa un generale, dalla fama di filo-serbo, in una società mineraria?
Quante coincidenze per il fattore K in terra di Dancalia! Il filo rosso degli affari, tessuto in un secolo da Giovanni Agnelli senior, da una multinazionale in qualche modo vicina alla Cia e da una spregiudicata società mineraria canadese, sembra oggi chiudersi. L’Africa è solo il teatro che ospita una commedia di soldi e potere, il palcoscenico della casta dei potenti della Terra.
Il 23 agosto scorso, la Allana Potash ha perforato un altro pozzo. Si chiama Dk-10-04. Il paesaggio della Dancalia appare destinato a cambiare.

* Le notizie storiche sulla cava di Dallol sono tratte dai libri-enciclopedia di Luca Lupi, Dancalia, editi dall’Istituto geografico militare. I documenti dell’Allana Potasi sono sul sito della multinazionale: www.allanapotash.com/s/Home.asp.

Qui, ancora una volta si interrompe il diario della Dancalia. Sono ancora nella Piana del Sale. Non è ancora cominciata la salita verso l'altopiano. Forse il diario riprenderà. Adesso cambio mondo: partenza per un'altra terra, a me sconosciuta. Verso occidente. Oltre l'oceano. L'isola di Haiti e della Repubblica Dominicana. A cercare di raccontare storie che ignoro. Non ci sarà modo e tempo per continuare a viaggiare in Dancalia. Spero che il viaggio riprenda. I blog consentono di violare ogni regola. Almeno mi illudo. Chiedo scusa.

San Casciano in Val di Pesa, 31 luglio 

sabato 30 luglio 2011

Ecco perché un vulcano della Dancalia è stato chiamato Catherine

Queste è la storia di una donna e di un luogo bello e terribile. Spesso, di fronte alla meraviglia di Dallol, dimentichiamo la sua pericolosità. 
Questo è il racconto di una donna che è scomparsa a Dallol il 27 dicembre del 2003. Si chiamava Catherine Cohen. 

La collina di Dallol



Sono andato in cerca di un uomo. Un uomo invecchiato nei deserti. Avevo un racconto da ascoltare.Un tributo che desideravo di pagare. Il destino, avvertono da queste parti, è già scritto, le storie devono compiersi. A volte si può essere solo testimoni.
So dov’è il vecchio. Poi, potrò ricominciare il viaggio, muovermi da qui. Ho smarrito il ritmo ma, forse, ce l’ho fatta a non fermarmi. Faccio pochi passi nella notte. Cammino con calma, senza indecisioni. Ripenso alla lava del vulcano.
L’uomo che sto cercando non è africano, ha la pelle bianca. E’ seduto davanti all’ultima casa di Ahmed Ela. E’ un profilo scuro, attorno a lui le pietre hanno una strana luminosità. Ha rughe ovunque. I suoi capelli quasi splendono nella luce della notte. Deve compiere la sua recita. Aspettava questo incontro. Si passa una mano sul viso, la trattiene davanti alla bocca. E’ stanco anche lui. Le braccia si abbassano fino a trovare appoggio sulle ginocchia. Ha voglia di raccontare. E’ un peso che grava sulla sua anima. Se ne vuole liberare.

La luna ha quasi compiuto il suo percorso. C’è davvero una strana luminosità nell’aria di Ahmed Ela. Una fosforescenza leggera. Come se il deserto fosse il riflesso del volo di un tappeto di lucciole. Ho fatto tardi con il vecchio. Il racconto è stato lungo. Le parole sono rimaste sospese nell’aria per alcune ore. Molte se ne sono andate. Qualcuna mi è stata riportata indietro. Io non l’ho mai interrotto. Alla fine ha fatto un gesto: ‘Va via’. Lo ha detto con una tristezza che non conosceva fine. Ora c’è pace. La pace dopo un tornado. Sono tornato alla mia capanna. Devo provare a ricordare. La luce di questa strana notte mi aiuta, riesco perfino a scrivere. La luna ha quasi finito il suo viaggio quotidiano, sta per tramontare, ma esita ancora. Aspetta che io abbia finito. Adesso, in una casa di campagna, in un paesaggio talmente diverso da credere che niente sia mai successo, non mi rimane che ricopiare quanto ho scritto quella notte. Molte parole sono rimaste laggiù. A Dallol.

Dallol


‘Catherine è scomparsa dopo Natale. Da giorni era inquieta. Era una donna solitaria. Cercava. So che cercava qualcosa. O qualcuno. Credo che sia venuta in Dancalia per cercare. Le devono aver detto che qua poteva essere possibile. E lei è venuta. E’ stata tentata dal vulcano.
Si accodò alla nostra fila. Volevamo festeggiare il Natale lassù, sulla sponda del lago di fuoco. Io mi ero raccomandato: nessuna imprudenza, nessuno rimanga indietro. Lei rallentava, si nascondeva, si smarriva. Vacillava. La rimproverai. Mi disse che aveva dimenticato a valle il suo talismano. Che temeva di averlo perduto. Non poteva salire senza quell’oggetto. Voleva tornare indietro. Gli altri non capivano. Erano arrabbiati. Lei resisteva. Io ero incerto. Ma insistevo, doveva salire con noi. Non poteva rimanere sola. A un certo punto, i suoi occhi mi apparvero così stanchi che avrei acconsentito a rimanere lì tutta la notte. Lei ebbe un sussulto. Fu un lampo: le sue gambe scattarono di colpo, non disse niente, ma si mise in cammino. I suoi passi divennero svelti, inafferrabili. Stava volando nella notte. Nessuno di noi riusciva a starle dietro. Se avesse voluto sarebbe scomparsa verso il vulcano. Ma rallentò, si voltò, i suoi occhi scintillavano. Era eccitata. Arrivò sui bordi della caldera, non si fermò, proseguì. Scavalcò la cresta, spiccò un salto. Stava correndo. La vidi dall’alto. Gridai. Lei agitò le braccia. Si arrestò solo sull’orlo dell’abisso. Il vulcano sembrò esplodere, il lago di lava lanciò le sue fiamme nella notte, un pulviscolo rosso avvolse il cielo. Lei si dondolò. Gridai ancora. Trovò un equilibrio. Rimase lì tutta la notte. Accucciata su una pietra. Stanchissima. Non osai toccarla. Non la persi di vista. Sapevo che non l’avrei potuta fermare. All’alba fu la prima a mettersi in cammino. Sulla strada del ritorno, ritrovò il suo talismano. Era in una cavità di una bolla di lava antica. Alcune frasche lo nascondevano e lo proteggevano.

Il viaggio verso Nord fu difficile. Fummo avvolti da una tempesta di sabbia. La nostra guida si smarrì nella piana di polvere ai piedi del vulcano. Fu lei, allora, a condurci sulla pista giusta. Guardava avanti, non si voltò mai verso di me. Gli autisti le ubbidirono senza dire una sola parola. Ci condusse fino a Dallol. Decidemmo di dormire sulla sponda della collina. A quel tempo era permesso. Per un secondo, mentre scendevo dalla macchina, la persi di vista. Non c’era più. Mi guardai attorno, non volli allarmare nessuno, mandai due ragazzi a perlustrare i dintorni. La videro, le parlarono. Non tornò al campo quella sera. Ma promise. Al mattino la sua ombra era seduta su una pietra della collina. Come se avesse vegliato su di noi. Si alzò con il primo raggio del sole. Si incamminò. Scomparve ai nostri occhi. Riapparve. Divenne nuovamente invisibile. Sembrava seguire qualcuno, non si curava di noi. Cercai di avvicinarmi. La vidi raccogliere nel palmo di una mano l’acqua che zampillava da un geyser. La vidi immergere un piede in una vasca di liquido acido. La vidi portarsi del sale alle labbra. Si alzò una nuvola di vapori e lei si spostò perché le entrasse in bocca. Aveva uno sguardo lucido di felicità. Sapeva che la sua attesa era finita. Io volevo che non si perdesse, non sapevo più cos’era giusto. Forse, non volevo sapere. I miei occhi erano velati. Avevo bisogno di riposare. Sentivo il terreno cedere sotto di me. Dissi a un ragazzo e a un soldato di non perderla di vista. Dopo alcune ore i due uomini mi risvegliarono dal torpore e mi dissero che la donna era scomparsa. Io sapevo che questa volta non sarebbe riapparsa.  
Lo sapevo, ma feci di tutto per ritrovarla. Mandai una macchina al villaggio. Arrivarono i soldati, arrivarono i giovani. Accerchiammo la collina di Dallol. Cercammo, cercammo, cercammo. Di giorno, di notte. Per giorni. Metro dopo metro, buco dopo buco. Ci scorticammo gli occhi e le braccia. Ci arrendemmo.  Lei camminava sempre scalza. I suoi bracciali dove erano finiti? Il suo talismano? Non si può scomparire in un metro quadrato. Il suo autista piangeva. Mi diceva che l’aveva vista. Era sicuro che fosse dietro di lui. Si era incamminato verso le macchine, sentiva i suoi passi, si voltò e lei non era più lì. Mi disse che, poco dopo, era riapparsa solo per mandargli un saluto. Un addio.
Sono venuti con gli elicotteri per cercarla. Hanno fatto sfoggio di potenza per trovarla. Volevano impressionare l’ambasciatore. Vado anch’io, salgo con un pilota giovane. Siamo soli. Guardo Dallol dall’alto. E’ bellissimo. Questo militare che maneggia altimetri e cloche mi spiega che molti si perdono in Dancalia. A vedere la Piana dal cielo, mi sembra impossibile. Il deserto appare piccolo, piatto, senza nascondigli. Lui insiste: scompaiono, a volte riappaiono, qualcuno è tornato indietro. La gente del villaggio li vede ricomparire all’improvviso in mezzo al sale: hanno occhi sereni e abiti eleganti. Quel pilota usò proprio queste parole: ‘Vesti colorate ed eleganti’. Nessuno ha mai chiesto nulla alle persone che tornavano. Qui, in Dancalia, si cerca di dimenticare quello che non può essere detto, mi disse il pilota. Sembrava che volesse rassicurarmi. Io non chiesi nulla. Lui fece ancora un giro sopra Dallol, poi disse: rientriamo, e lei è meglio che torni a casa.
Non ascoltai il suo consiglio. Non me ne andai, non potevo. Ripresi ancora una volta il cammino di Dallol. Rifeci gli stessi passi per la millesima volta. Con me, un soldato magrissimo. Non lo avevo mai visto prima. 
Feci pochi passi, la macchina era ancora in vista. Tutto accade all’improvviso. Senza un rumore, senza un odore, senza un allarme. Un refolo di vento, forse. Caddi a terra, capii di cadere a terra, ma non lo avvertii. Era come se il mio corpo non mi appartenesse più. Cercai di afferrare qualcosa, ma non c’era niente che potesse sostenermi. Ebbi freddo. Poi caldo. Sapevo di essere disteso a terra. Vedevo il soldato ondeggiare davanti a me. Mi stava guardando. Ma non faceva niente per aiutarmi. Volevo gridare, ma nessuna voce uscì dalle mie labbra. Non riuscivo a muovere nessun muscolo. Non avevo più un corpo. Era come se mi guardassi in uno specchio. Non mi dibattevo, non mi agitavo, non stavo soffrendo. Solo le palpebre avevano delle contrazioni. Non sentivo più nulla. Eppure sapevo che vi erano voci attorno a me. Stavano discutendo. Il soldato era ancora immobile. Anzi, si era allontanato di un passo. Non riuscivo nemmeno a pensare che quella potesse essere la fine. Ci fu come un tocco, ritrovai sensibilità, sentii scorrere sulla mia pelle un altro soffio d’aria, qualcosa mi sfiorò la fronte, sapevo che stavo per addormentarmi, lottai per tenermi sveglio. Gli occhi si chiudevano da soli, non so quanto tempo sia passato. Ma il torace, almeno credetti che fosse il mio torace, stava di nuovo alzandosi e abbassandosi. Lo sentivo, sentivo il respiro che usciva. Il corpo riacquistò calore, una goccia di acqua scivolò sulla mia gamba. Tornavo nel mondo. Ero salvo, lo sapevo. Qualcuno mi aveva salvato. Il soldato era ancora lì. Non cambiò espressione. Non mi porse la mano per aiutarmi ad alzarmi.  Aspettava. Chiese: era questo che volevi, vecchio? Avevi scelto. Ma non eri pronto. Allora ti hanno dato una seconda possibilità. Va via. Ora va via. Lo guardai e vidi una grande tristezza nei suoi occhi. Adesso sì, mi offrì il braccio e mi sostenne nel cammino del ritorno Non lo avrei mai più rivisto.

I geycers di Dallol


Ma io sono un uomo bianco. Vedi il colore della mia pelle? Puoi capire i miei pensieri? Sono tornato. Più volte. Anche adesso, in fondo, sono qui per lei. Ho cercato con i metal-detector. Volevo trovare almeno i suoi anelli. I suoi bracciali. Dal giorno della sua scomparsa, il vulcano ha smesso di agitarsi. Là dove sono caduto io, si è richiusa una frattura, non c’è più la crepa che io ricordavo. Non saprei più ritrovare il posto. Mi sono segnato il punto, ma quando vado là è sempre diverso. Non sono più sicuro di niente.
Mi sobbalzò il cuore, quando, molto tempo dopo, un afar lasciò davanti alla mia tenda un paio di sandali calcificati dal sale. Erano i suoi. Ma lei andava a piedi scalzi. Mi dissero che erano stati lasciati, uno accanto all’altro, ai bordi dell’isolotto di Dallol. Come se lei fosse entrata nella casa di qualcuno. Ogni volta che torno spero di incontrarla. Vorrei che venisse verso di me con abiti eleganti e colorati. Vorrei che mi accogliesse nel luogo dove è adesso’.

Questa è Dallol


Il vecchio è stremato. Continua a tormentarsi il viso con le mani. Nessuno si è avvicinato a noi. Nessun rumore. Ahmed Ela ha ascoltato una storia che conosce bene. Catherine è da qualche parte. Qui attorno. Chiudo il piccolo quaderno. Dovrebbe esserci chi scrive la sua storia. Penso sempre che debba esserci qualcuno che scriva le storie. Non si può scomparire senza lasciare tracce.
Asfaw non sta dormendo. Si avvicina. Parla senza che io chieda niente: ‘Ha avuto un figlio, quella donna. Questo è quello che si dice. Una volta interrogai un matto. Ibrahim. Si chiama Ibrahim, il matto. Forse lo conoscerai se rimani ancora qualche giorno. Appare dal deserto. Oppure scende dal canyon. Dicono che viva a Dallol. Fu lui a dirmi di lasciare in pace Catherine. Ha scelto la sua vita, mi spiegò’. Gli occhi mi si chiudevano dal sonno. Asfaw si allontanò nella notte.
Ecco perché un vulcano imperioso, compagno dell’Erta Ale, è stato chiamato Catherine.

Questo racconto fu scritto una notte di luna quasi piena a Dallol. Il vecchio aveva parlato per ore. Adesso confondo i tempi. Sono in partenza per un altro viaggio. Ma volevo che questa storia di staccasse da me. 
San Casciano, 30 luglio

venerdì 29 luglio 2011

Libia/Agguato a Bengasi

                                                                       (da al-Jazeera)


Per quarant’anni, Abd al-Fattah Yunis, 67 anni, coetaneo del colonnello, è stato uno degli amici più stretti di Muammar Gheddafi. Un’alleato fidato. Capo militare. Nei fatti, figli del rais a parte, era il numero due del regime. Fino allo scorso febbraio era il ministro degli interni della Libia.
Al-Fattah Yunis è fra i cinque superstiti del gruppo di ufficiali che nel 1969 detronizzò re Idriss e diede vita alla rivoluzione libica. E’ stato l’unico fra i vecchi compagni ad aver abbandonato il colonnello. Nato a Bengasi, Yunis era stato mandato da Gheddafi a schiacciare la ribellione dei suoi concittadini. Yunis, a sorpresa, saltò il fosso: si schierò con i ribelli e portò con sé gli uomini della sua brigata. Furono loro a resistere ai soldati leali al rais in quei giorni di febbraio.

Abd al-Fattah Yunis è stato ucciso a Bengasi. Era il discusso capo militare degli insorti. Da settimane era sospettato di continuare a intrecciare rapporti con gli uomini di Gheddafi. E poi, nonostante il massiccio aiuto dei bombardamenti Nato, non riusciva a vincere la battaglia di Brega. Era, persino, circolata la voce di un suo arresto. Ben nota era la sua rivalità con Khalifa Hefter, un generale rientrato in Cirenaica dopo venti anni di esilio negli Stati Uniti. Entrambi, per mesi, hanno rivendicato di essere i comandanti degli insorti. Solo lo scorso aprile Yunis era stato riconosciuto come leader militare dal Consiglio di Transizione.

Le diverse fonti concordano: al-Fattah è caduto in un agguato mentre stava rientrando a Bengasi dal fronte. Era stato richiamato per un confronto sulla mancata conquista di Brega. Molti, all’interno del Consiglio di Transizione, non si fidavano di Yunis.

A oggi, non è chiaro se il suo corpo sia stato identificato o meno (no, secondo il Guardian; sì, a leggere al-Jazeera). Giovedì notte, il presidente del Consiglio di Transizione, Mustafa Abd al-Galil, ha improvvisato una conferenza stampa all’hotel Tibesti. Non ha accettato nessuna domanda. Ha solo definito ‘un eroe’ al-Fattah Yunis. A leggere i resoconti della conferenza stampa, uomini armati hanno interrotto la conferenza sparando e gridando: ‘Voi l’avete ucciso’.
  
La guerra di Libia rimane un rebus osceno. Smentisce ogni certezza. E’ un azzardo illeggibile con occhi occidentali. Solo due giorni prima, il ministro degli esteri inglese, William Hague, aveva annunciato il riconoscimento dei ribelli bengasini come legittimo governo della Libia. Mal gliene incorse. Gli spari che hanno ucciso Yunis rivelano che i giochi all’interno della nebulosa di Bengasi sono spietati.
San Casciano in Val di Pesa, 29 luglio

Africa/ Sono troppo diverso

Il mercato africano (savana del Mali)



Copio. Con qualche legittimità. Paolo Rumiz mi perdonerà. A sua volta, Paolo ha copiato una lettera di suo figlio, Michele. Lo ha fatto quando, smarrito in una savana del Nord Uganda (intuisco cosa si prova, intuisco il desiderio di copiare quelle parole del figlio), ha riletto una vecchia lettera. Questa volta non ci sono trucchi da giornalista. Michele ha regalato parole che aiutano a capire qualcosa che, in quel momento, sta dentro la pancia, la testa e il cuore, ma non si riesce a mettere a fuoco.
Siamo nel Nord dell’Uganda. E Michele è in un luogo che si chiama Kalongo da qualche mese. Un bianco in uno dei cuori dell’Africa. Paolo legge la sua lettera e si sente un ‘displaced people’
Ecco le parole di Michele prestate a suo padre Paolo Rumiz.

Lottatore nubiano


‘Una notte in cui la Luna illuminava il grande plateau di Kalongo, abbiamo giocato a carte senza lampadine, né candele. Tutto intorno era cobalto e argento, ombre di foglie su altre foglie, ombra sull’erba, ombra degli alberi sui tetti. Il cielo era mozzafiato, miliardi di stelle e la via Lattea era una nube di cui percepivamo il volume. Eppure non c’era una stella che riconoscessi….

Quando prendo la bicicletta faccio ridere tutti. La bicicletta è per i poveri, e un bianco povero, qui non si è mai visto. La prima volta ci ho riso sopra anch’io. Poi ho sentito solo un senso di isolamento che cresceva. Sono troppo diverso. L’ho capito anche con Margaret. Ha occhi dolci e grandi, e una postura regale come solo le Acholi paiono avere, con i tratti già simili ai nubiani. Mi piace tanto, ma non gliel’ho mai detto. Troppa differenza fra noi. Io ho la mia pancia piena, il mio passaporto europeo, la mia pelle bianca. Lei vive in una capanna, terza di otto figli. Se solo mi avvicinassi, la squaliferei per la vita. Mi sono sentito in colpa persino quando a Natale, le ho regalato i libri per le scuole secondarie. Lei non se li poteva permettere.

Jamila


Quel giorno ho deciso di non restare. Ho capito che per funzionare in Africa avrei dovuto cambiare paradigma. Mi è apparso chiaro che ero davanti a un bivio: ‘funzionare’ in Africa o ‘funzionare’ a casa. Alcuni lo chiamano African bug, l’insetto che ti punge e ti tiene legato a questo continente così ruvido, vivo, solare e impietoso. Un luogo dove tutto è vita, vita che sovrasta altra vita, dove tutto cresce, si trasforma, prende il sopravvento e poi svanisce con una irruenza che costringe a cambiare i nostri parametri di sensibilità.

Era giorno, pieno giorno, quando mi sono guardato nel cuore e ho capito che non sarei mai stato felice se avessi scelto di restare. Tutte le mie certezze si erano sgretolata sotto il sole dell’Africa. Un sole che non concede ombre, ti lascia nudo. Tornerò a casa’

Grazie, Michele. Grazie Paolo.

San Casciano, 29 luglio

Paolo Rumiz ha copiato la lettera di suo figlio nel piccolo libro ‘Il bene ostinato’, edito da Feltrinelli (2011). Paolo racconta la storia del Cuamm, Medici con l’Africa. Un libro da leggere. Con questa avvertenza: che le parole di Michele siano una domanda anche per chi lavora da decenni in Africa. L’importante, credo, sia porsi domande.


giovedì 28 luglio 2011

Libia, 2094 obiettivi colpiti

Tripoli, il vecchio quartiere italiano

Si avvicina Ramadan, mese sacro dell’Islam. Cosa accadrà in Libia? La guerra appare indecifrabile. Almeno a vederla da questa sponda del Mediterraneo. Qualcuno, un giorno, dovrà rimontare la scansione delle parole dei ministri, degli intellettuali, dei militari: appaiono una babele, una sorta di stupidario privo di qualsiasi senso di responsabilità. La guerra, noiosa come tutte le guerre che non siano blitz cinematografici, sta fuori dai giornali e dalle televisioni. I giornalisti vanno e vengono dall’hotel Rixos di Tripoli, non vanno più nemmeno a Bengasi. Chissà cosa sta accadendo a Misurata? I nostri amici, nel Sud della Libia, continuano una vita ‘tranquilla’, quasi indifferenti a quel che accade a Nord. Chissà chi controlla Sebha, capoluogo del deserto?

Il filosofo Bernard-Henri Lévy, guru spregiudicato di questa guerra, sostiene che la disfatta di Gheddafi è vicina. Viaggia nelle montagna del Jabel Nafusa, fronte meridionale dello scontro mortale fra ghedaffiani e insorti. Racconta, con soddisfazione non celata, di uomini in armi ben addestrati, smentisce le voci di violenze dei ribelli (si fida) contro la popolazione civile e assiste all’arrivo di armi francesi destinate agli oppositori di Gheddafi (la definisce ‘un progresso’. Si contraddice un po’: parla di decine di tonnellate di armamenti e poco più sotto scrive di mezza tonnellata di armi semi-pesanti).

Passa solo un giorno dal reportage di Henri-Lèvy e il ministro degli esteri francese, Alain Juppé, dice che ‘Gheddafi potrebbe restare nel paese, se rinunciasse al potere’. Cambio radicale di linea di Parigi, paese in prima fila nella guerra contro il colonnello. Gli Stati Uniti, a loro volta, parlano di salvacondotto per il rais e ammettono incontri con suoi inviati in Tunisia. Gli inglesi si trincerano nell’ambiguità: ‘Il destino di Gheddafi deve essere deciso dai libici’. Si arrabbiano, allora, all’Aja: ‘Gheddafi deve essere arrestato’, ricorda Florence Olara, portavoce della Corte Internazionali di Giustizia. C’è o non c’è un mandato di cattura internazionale?

A leggere il database del Guardian sono stati colpiti, dall’inizio dei bombardamenti Nato, 2094 obiettivi. Cos’altro c’è da bombardare nelle regioni dei ghedaffiani? La caserma di Bab al-Azazya non è più grande di un isolato: quante volte è stata bombardata?

Torniamo a seguire il denaro. Londra espelle diplomatici libici (quindi ce ne erano ancora in Inghilterra) e riconosce il Consiglio di Transizione di Bengasi come unico rappresentante del paese. Attenzione, appare come un passo diplomatico dettato da ragioni di burocrazia e coerenza con le decisioni del ‘gruppo di contatto’ dei 22 paesi in guerra. Non è solo così, è uno strappo a regole consolidate della diplomazia britannica (si riconoscono gli stati, non i governi) e viene compiuto solo per permettere di scongelare 91 milioni di sterline appartenente all’Arabian Gulf Oil Company, filiale cirenaica della vecchia agenzia statale petrolifera libica. Viene scritto che il Consiglio bengasino ha promesso che con questi soldi non comprerà armi, ma benzina.
Londra avverte: i bombardamenti, cioè la loro guerra, potrà avere una durata ‘indefinita’.  
San Casciano, 27 luglio

mercoledì 27 luglio 2011

Già, cos'è Dallol?


Già, cosa è Dallol?
Non lo so. Non l’ho capito. ‘Interazione fra vulcanismo e idrologia’, mi disse un francese. E tanto mi bastò. Suonava bene. Isolotto geyseriano: questo fa molto Islanda. Sta sopra la coltre salina della Piana. E’ salgemma, strati di argilla, gesso. E’ nato nell’olocene, mi spiegano. Ultima epoca del Quaternario. E’ recente, Dallol. Poco più di undicimila anni di vita. E’ vivo, Dallol. Forze tettoniche lo hanno sopraelevato, spinto verso l’alto. Lui si è rifiutato di trasformarsi in vulcano, ma lo è. Uno strano vulcano. Acque acide, sale, sole, vento, impossibili e violentissime piogge hanno trovato un deserto fertile per la loro arte. Il magma, un passo sottoterra, ha fatto bollire l’impasto vulcanico. Una polenta tettonica, ecco cos’è Dallol. E ancora non ha conosciuto quiete: il paesaggio qui è mutevole, non si mostra mai uguale, i Ginn si divertono a modificarne colori, sculture, anfratti. Dallol, facile a dirlo, è un altro pianeta.
Non ho nemmeno capito l’estensione di questo isolotto. I soldati non mi hanno mai consentito di far il periplo delle sue sponde. Non sono mai andato da una parte all’altra. Niente da fare. Con i militari non discuti, le guide oramai sono abituate a itinerari certi e non amano chi cerca qualche novità. Non capiscono. Incomunicabilità. Insomma, a seconda di chi leggi, Dallol è appena uno scoglio: poco più di un chilometro e mezzo da Est a Ovest. Appena seicento metri da Nord a Sud. Può essere che abbia una superficie di otto chilometri quadrati, come sostengono altri viaggiatori? Oppure è un ovale con un diametro di quasi sei chilometri? Non ne ho idea, giuro. Mi piace che Dallol rimanga un mistero, che inganni perfino chi pretende di misurarlo. Ci sono venuti a decine qui (ingegneri, vulcanologi, prospector, geologi), ma io non ho ancora letto qualcuno che mi dica con chiarezza cosa è Dallol, che mi faccia capire con parole semplici. I Ginn sono abili a confondere le idee.

I piedi sui fiori di Dallol

Dovrete rassegnarvi. Non ci sono dialoghi. Non ci sono personaggi e interpreti a Dallol. La natura prevale, azzittisce, forse intimorisce. Il vento toglie le parole. Gli occhi sono irritati da vapori acri. Non mi decido ad andare avanti. Il capitolo si preannuncia noioso. E’ il contrappasso della bellezza di questo luogo. Non vuole farsi raccontare, e c’è poco da fare: se qualcosa non accetta che le parole lo descrivano, bisogna ripiegare la propria superbia. Ammettere l’impossibilità.
Ci sgraniamo nella piccola salita. Un soldato in testa. Hussein è dietro a noi, la futà gli imprigiona le gambe e, allora, la solleva con le mani. Noi muoviamo passi incerti. Le pietre sono taglienti, aguzze, seghettate. Non si riesce mai a posare una suola in maniera orizzontale. Si cammina sbilenchi. Quasi zoppicando. Attenti a non cadere. Un’ascensione quasi ridicola. Si può andare in paradiso (o in un bellissimo inferno) grazie a una salitella facile facile? Dallol è così: non promette, ma poi mantiene una promessa non fatta.
Vediamo la lista della collezione: geysers gassosi, microvulcani, bastioni, pinnacoli, fumarole, concrezioni di evaporiti, muraglie, guglie attorcigliate, stalagmiti bianchissime, laghi salmastri, pozze di acque surreali, photoshop da deserto di sale, orgasmi di fotografi, maschere antigas per i più prudenti (i vapori di zolfo sono nuvole che tolgono il fiato e raspano gola e polmoni) o per i più sfacciati, la terra si spezza e si ricompone, schizzi di acqua bollente. E ancora: zolfo purissimo, magnesio, salamoia, soda solidificata (qualunque cosa voglia dire). Tavolozza di colori: verde giada, sfumature di cobalto, rosso granata, giallo-zolfo, porpora rugginosa, ocra spinto, arancio sulfureo, bianco perfetto. Arlecchino geologico. Ogni tinta è fuori gamma. Le praterie sono di sale rosso, il vento ha fatto da tagliaerba. Niente è normale a Dallol. E’ così splendente l’inferno? La geotermia è creativa e inquieta in questa Piana. Questo luogo è inaccessibile, ma noi ci stiamo camminando come in un outlet della meraviglia. Dallol, lo ripetiamo, non può esistere, eppure io, con sprezzo di ogni cautela, tocco con le dita uno schizzo di acqua rovente. E’ potente, Dallol. E’ fragilissimo. Con un passo sgretolo un dente di sale cristallizzato. Ne sono desolato. Ho staccato un’unghia a un capolavoro. Ma l’uomo può far parte di questo posto? Al solito, nei miei taccuini, non c’è nemmeno una traccia, non una sola parola su Dallol. Devo anche dirvi che cerco di resistere alla tentazione di guardare le foto che mi renderebbero visiva la memoria. Non sono qui per scrivere didascalie.

I colori di Dallol


Dovrei dirvi del primo geyser. Un pilastro vulcanico disseccato. Ha perso il suo colore. E’ sbiadito. Indifferente. Solitario. Un maggiordomo pallido che dice, controvoglia:‘Entrate’. Non annuncia nemmeno i fiori.

Il tappeto dei fiori di Dallol

I fiori sono sul tappeto. Anzi, sotto il tappeto. Qualcuno si è dimenticato di sistemarlo là per terra. E allora il sottosuolo è ben visibile. E i fiori sono a mazzi, hanno steli appuntiti, si divaricano in corone, non fanno crescere erba sotto la loro ombra. Rendono sorprendente l’ingresso a Dallol. Sono distesi in un campo. Sotto il sale è un gorgoglio pietrificato. I fotografi cominciano a sgranarsi.
Gli isolotti aspettano l’acqua.  A volte arriva e allora le loro sponde si erodono in una soluzione acida. Altrimenti stanno lì: arcipelago senza mare. Forme sferiche, potrebbero essere torte nuziali e, invece, sono funghi di soda e zolfo. Ci si diverte a saltare da uno all’altro. Parco giochi, sorrisi un po’ forzati. Felicità con qualche inafferrabile punta di disagio.
I ciambelloni sono pochi metri più. ‘Ambasha’, mi dice Khadir. Si vede che ha frequentato gente tigrina. E’ il pane dell’altopiano, il pane rotondo e piatto (farina di grano o di orzo), leggermente dolce, appena lievitato, della gente delle campagne del Nord. Qualcuno ha steso per terra questi pani. A seccare, immagino. Oramai sono duri come la pietra. Accerchiano un geyser spento. E’ il forno, mi viene da pensare: quasi li avesse sputati lui, questi ciambelloni. Sì, a ben vedere sembrano tanti splat di melassa magmatica gettati verso il cielo e ricaduti al suolo. Il sole li ha pietrificati.

Germogli di pietra

Poi basta girarsi attorno. I geysers reagiscono ai nostri passi con sbuffi di acqua calda. Ce ne accorgiamo e cerchiamo di ingannarli: ma loro non ci cascano, zampillano solo quando muoviamo veramente i piedi. I colori dei microvulcani sfumano. Dal bianco candido al verde-smeraldo. In mezzo, il giallo dello zolfo. Loro borbottano. Ci arrendiamo subito: sono decine e decine, centinaia e centinaia i geysers, i microgeysers, i finti geysers, i geysers nascosti, i geysers che fingono di essere spenti e che invece aspettano solo che ci si metta il naso sopra. Sono cresciuti in maniera tormentata. Vulcanismo secondario, se ho letto bene. Mi suggeriscono un nome bellissimo: hornitos. Sta per camini. Camini da forno. Foresta di hornitos, ecco. L’acqua sale e scende in qualche camera infuocata, prende la rincorsa ed esce verso il cielo. Qui sono spruzzi e bollicine. Attorno cominciano a correre nuvole di vapore. Fazzoletti bagnati sulla bocca, inutili mascherine sollevate sul viso, arretramenti di fronte alla folata. Si corre qualche rischio, a Dallol.

Il lago di Dallol

Acquitrino giallo. Non c’era la prima volta che sono stato qui. E’ il centro della collina, forse un antico cratere. Non sarei mai capace di ritrovare le orme dei miei passaggi precedenti. Avevo anch’io visto delle foto (scusate, non ho resistito), ma ero convinto che questa palude gialla fosse scomparsa in qualche sconvolgimento recente. Ho sempre pensato che qui, in estate, quando nessuno si avvicina alla fornace dancala, qualcuno ordini immensi lavori per cambiare scenografia. L’acquitrino va e viene, ha fondali instabili, traballanti, scheggiati. Dalla melma salmastra, affiorano rughe di sale cristallizzato. Il giallo, a tratti, diventa arancione maturo. Color albicocca. Si potrebbe camminare sui passaggi fragili, ma si corre il pericolo di pietrose sabbie mobili. Non si può stacca re lo sguardo dal lago giallo. Detriti salini sull’altra sponda. Come se qualcuno vi avesse costruito una banchina sconnessa.
L’acqua si fa verde-giada (come diavolo è il verde giada?), niente photoshop sul serio, non c’è nella gamma di un software questo colore. Ora il paesaggio è di vasche. Piscine tropicali. Bordature di sale, facendo qualche attenzione, si può camminare su queste cornici, sale bianchissimo, a cristalli grandi che giocano con i cromatismi. Se la vasca ha qualche profondità, il verde si incupisce, altrimenti è leggerezza. Viene voglia di tirarci dentro un sasso che non c’è. Hussein non si lascia sfuggire il momento: sa che un nero in mezzo a quel verde splendente e a quelle striature bianche è perfetto. Tira su la futà e cammina sui bordi fino a mettersi al centro della scena. Fa scivolare l’acqua acida da una mano all’altro. Attaccherò la foto nell’ingresso della mia casa, già lo so. 

I passi di Hussein


Hussein adesso ha voglia di giocare e di guadagnarsi la mancia. Ancora un po’ e si stancherà di un gioco sempre simile a sé stesso. Ma ora si diverte. Mi conosce. A suo modo mi vuole bene. Mi mostra una pozza e mi dice: ‘Africa….’. E ha ragione, in mezzo a Dallol, una pozzanghera scintillante di acque verdi ha la forma del continente. Hussein si mette in posa. Scattano in tanti. Cosa ce ne faremo di tutta questa ripetitiva fantasia digitale?
Alien è un calpestio di uova. Deve saltar fuori qualcosa da questi gusci traforati. Camminiamo su terreni crocchianti, come se calpestassimo fragilissime punte di vetro. Sono quadrati di sale bucherellati. La crosta terrestre è aperta. Qualcuno ha succhiato il contenuto delle uova. Qualcosa ne è davvero uscito. Non si vede niente dentro i gusci. Nero assoluto, vuoto. Per quel che posso immaginare, vi sono canalette che arrivano fino al centro della terra. Ricordano le uova che hanno incubato Alien. Per questo stiamo lì. In attesa. Fino a quando il vento non trasporta gas irrespirabili. Ci spostiamo di lato.

Portarsi via Dallol

Dallol è questa. Sono passate ore da quando siamo entrati in un altro pianeta. Alice in wonderland. Viaggio al centro della Terra. Jules Verne sorride di nascosto. La Dancalia ha mostrato un’altra faccia. Solo tirando il fiato ci accorgiamo che il caldo è feroce, le nostre gole sono graffiate e gli occhi arrossati. I soldati vogliono tornare indietro. Hussein si è seduto. I fotografi sono allo stremo. Perché nessuno degli scrivitori di esplorazioni è mai riuscito a raccontarci Dallol?

Un diario che riprende. Quando è troppo tardi, ma un blog è un lavoro illusorio e solitario. Quindi non ha regole. Ancora una volta riscrivo a luglio, di cose accadute a febbraio. Perdonatemi.

San Casciano, 27 luglio 

martedì 19 luglio 2011

Genova/Venti luglio

Qualcosa accadde. In me, intendo. Fuori di me, era già accaduto moltissimo. C’era davvero un popolo per le strade di Genova, dieci anni fa. L’emozione forte di quei giorni si è ficcata nel mio cuore, nella mia memoria, nella mia storia. E' viva ancor oggi, mi fermo e la sento palpitare. Smuovere cuore e corpo. Pensieri. Quei giorni, davvero, non possono essere dimenticati. Ogni tanto, flash-back improvvisi, e riappaiono immagini. La sensazione di stanchezza estrema alla fine di quel venti luglio. Il sole stava tramontando, quando, sfinito, mi distesi sul lungomare di Boccadasse, segnato dai rottami e dal sangue di una giornata di guerra. Appoggiai la testa sulla borsa fotografica. So che mi addormentai. Fu un momento. Mi rialzai perché niente finiva quella sera. C'erano mille cose ancora da fare.

Ale Santoro, prete delle periferie fiorentina, che camminava disorientato alla fine della battaglia di via Tolemaide. Ecco, questo è un ricordo nitido. Era solo in mezzo a un viale alberato. Un sopravvissuto. Credo che nemmeno lui capisse fino in fondo cosa era accaduto.

I ragazzi rifugiati in un portone, i ragazzi in fuga, i ragazzi che si stringono, le mani bianche, le tute bianche, i lividi dei manganelli, un uomo a torso nudo, seduto davanti alla polizia, due comboniani (io sapevo che erano preti), grandi e grossi, che si guardavano sgomenti, ma che non tralasciarono di mangiarsi un’ultima frittella sul lungomare prima di unirsi alla gente che fuggiva da una violenza insensata. 

Frammenti. Non della guerra. Di quella ho ricordi lucidi, freddi, precisi, ma non di questo mi va oggi di parlare. Forse mi andrebbe di dire delle amicizie nate in quei giorni. Delle complicità. Della sensazione, nonostante questi dieci anni passati, che qualcosa sia davvero accaduto nell’animo di molta gente. La sensazione di una possibilità. E che quella volta non fu sufficiente la violenza per cancellare ‘la possibilità’. Sono convinto che Genova abbia dato dei buoni frutti.

Qualche settimana dopo quei giorni di luglio Miriam Giovanzana, direttrice di Altreconomia, mi chiese di tornare a Genova. Per raccontare di Carlo Giuliani. Per andare a camminare nei suoi vicoli. Per ripercorrere, lontano dai clamori dell’immediatezza, la storia di quei ragazzi che come Carlo si ritrovarono nelle strade di Genova. Non rispettai alcuna regola giornalistica. Camminai a lungo, a caso, credo. Senza indirizzi, né numeri di telefono. Non incontrai i protagonisti, ma gli attori di strada. Ne è uscito un lungo racconto. Troppo lungo per una rivista (e, ora, per un blog). Ma Miriam decise di pubblicarlo per intero. Non so bene perché lo fece. Il rapporto con lei è una di quelle storie nate a Genova, che vivono di quanto avvenne attorno a noi e dentro di noi. Fu lei a chiedermi di andare anche con le Tute Bianche in quel venti luglio di dieci anni fa. So che quei giorni hanno costruito i dieci anni che sono appena passati. Mi hanno costretto a guardare ancora il mondo.

Fu sempre Miriam, devo ricordarlo, che durante la folle conferenza stampa della polizia, dopo l'assalto alla scuola Diaz, gridò subito che era un'indecenza quello che stavano dicendo. Ricordo la sua voce. E il portavoce della polizia smarrito e imbarazzato. Sapeva di stare mentendo. 

Qui di seguito troverete, illeggibile su un blog, perdonatemi (se pensate che possa interessare, copiatelo e leggetelo in un formato diverso), quel racconto apparso su Altreconomia. Nessuna foto. Non le trovo più. Non so dove siano finite. 

Il libro da leggere per chi vuole capire cosa è accaduto a Genova è Eclissi della democrazia. Lo hanno scritto Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci, è edito da Feltrinelli. Un libro pericoloso. Bello, intenso, sincero. Tenace. Pericoloso davvero per chi non ama la democrazia. Da leggere. 

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Chourmo, in provenzale, significa la ciurma, i rematori della galera. A Marsiglia le galere le conoscevamo bene. Per finirci dentro non c’era bisogno, come due secoli fa, di aver ucciso il padre o la madre. No, oggi bastava essere giovane, immigrato o non.  Chourmo è diventato un gruppo di incontro. Lo scopo era che la gente si incontrasse. Si ‘immischiasse’, come si dice a Marsiglia. Degli affari degli altri e viceversa. Esisteva uno spirito chourmo. Non eri di un quartiere o di una cité. Eri chourmo. Nella stessa galera, a remare! Per uscirne fuori. Insieme.

Jean-Claude Izzo Chourmo, il cuore di Marsiglia.


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Vicoli


Perché nessuno ha scritto una cosa semplice? Che Carlo Giuliani era bello. Bello, con i capelli lunghi, in quella foto di classe scattata ai tempi del liceo scientifico Leonardo Da Vinci. Bello, nella foto più diffusa dai giornali: era già più vecchio di una manciata di anni, con i capelli quasi rasati. Bello, piccolo, magrissimo, gentile, con occhi sorridenti. Davvero: il passamontagna non rendeva giustizia alla bellezza dei suoi 23 anni.
Anche Sara, ‘Saretta’, 21 anni, è bella, gioiosa, ‘vera’ come un rosa. E ricorda: ‘Era così simpatico, amorevole. Non litigava mai con nessuno. Ti salutava sempre con un bacino. Una cosa che qui a Genova, nei vicoli, nessuno fa mai. Carlo ti voleva bene’. Ho cercato di riportare, parola dopo parola, il ricordo di Sara. Perché mi è sembrato il più sincero, il più immediato. E’ uscito così dal suo sorriso, dal velo di malinconia che ha attraversato il suo sguardo, dopo un lungo parlare all’ombra di un albero nel giardino della facoltà di architettura, università sorta nel cuore dei vicoli genovesi. ‘Saretta’ è davvero una ragazza del ‘movimento’: fa studi di politica internazionale, gira l’Italia come giocoliera (nel giorno felice del corteo dei migranti, il giovedì di quella settimana del G8, faceva volare le clave davanti ai cordoni dei poliziotti),  ora andrà a studiare a Madrid (se supera l’esame di economia, andato male anche per colpa di quegli elicotteri che, per mesi, hanno reso impossibile la vita ai genovesi) e là, in Spagna, farà anche la ‘scuola del circo’. E’ lei, ci potrei giurare, ad avere scritto parole di tenerezza e dolore lasciate sull’altare laico nato, in queste settimane, in piazza Alimonda: ‘Mi ha sempre fatto piacere incontrarti nei vicoli. Sotto casa vedo ancora la tua sagoma, un cappellino in testa’. Quasi una lettera a Carlo, a Carletto, come era conosciuto dai suoi amici. Più in alto, oltre il foglio scritto a penna da Saretta, altre parole lasciate, con il pennarello, su un drappo bianco da Roberto: ‘Solo chi ti ha conosciuto può capire ciò che il mondo ha perso’. Questo è davvero quello che passa nella testa dei ragazzi di Genova. ‘Sono stati tramortiti da questa morte’, avverte don Andrea Gallo, 73 anni, prete dei vicoli e del porto. E ha ragione, una ragione insopportabile per quanto è dolorosa, chi ha detto, piangendo, ai funerali: ‘Non me ne faccio nulla di un eroe dell’antiglobalizzazione, a me manca un amico vivo’.
Sbaglia, invece, (per imbarazzo, per vigliaccheria, per timori incomprensibili, perché non ha ‘sapere’ e crede che la politica non sia stare con ‘la gente’) chi ha scritto che Carlo non è un ragazzo che appartiene al ‘movimento’, quel ‘movimento’ che ha portato 300mila persone in piazza. Vi apparteneva, eccome. Spiega Alessandro Dal Lago, 54 anni, sociologo, preside di Scienza della Formazione a Genova: ‘Hanno ucciso un ragazzo. Un ragazzo, forse vagamente, ma certamente di sinistra. Un ragazzo che era venuto ai cortei e che aveva valori etici autentici. E nessuno ha il coraggio di dire che faceva parte di questo movimento? Che ne era davvero rappresentativo? Posso dire che questo silenzio è quantomeno sconcertante’.

Com’è bella Genova. Come sono belli i suoi vicoli che l’arroganza e la paura degli Otto Grandi avevano ridotto a deserto, a solitudine, a prigione. Essere a Genova vuol dire essere a Dakar, a Barcellona, a Tangeri, a Marsiglia, a Napoli. ‘E’ una città che senti tua’, dice un’altra ragazza. Ci vorrebbero le parole di Jean-Claude Izzo, scrittore del porto di  Marsiglia, per raccontarla. Città rovesciata, come quasi tutte le città di mare: i quartieri del degrado e della bellezza, della povertà e dell’antica ricchezza, degli immigrati e della genovesità, della prostituzione e delle suore di Teresa di Calcutta, della droga e delle osterie felici sono nel centro storico. I ‘senzastoria’, qui, attorno al porto, sono mischiati con l’avanzata di una borghesia ‘illuminata’, di ricercatori universitari, di famiglie di intellettuali che, lentamente, ma inesorabilmente, vengono a vivere fra i vicoli. Qui, ‘dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi’. E quindi, ecco spuntare bar e locali di lustro e ‘tendenza’ (Le Corbusier, il Caffè degli Specchi), ristoranti di buona cucina e prezzi inaccessibili alla vera gente dei vicoli (Schooner), gallerie d’arte raffinate e snob. Direbbe Enrico Ratto, giovanissimo scrittore di un romanzo sui vicoli: ‘Qui viene gente con una grande materia alternativa al posto della normale materia grigia’. E qui vivono, spendono le loro giornate, passano nottate di birra e fumo, i ragazzi, i ragazzi di Genova. Quelli che nei vicoli ci abitano (pochissimi gli ‘indigeni’ veri) e quelli che, ogni giorno, ci vengono da fuori. Inutile chiedere quanti sono? Ti rispondono: ‘Ha un senso se ti dico duecento e poi diecimila?’. Il paesone dei vicoli, luogo dove tutti si conoscono e si salutano, è una città viva e incasinata, slabbrata ed eccitata: qui ci stanno, fra genovesi e turbini di immigrati (in questi mesi è atterrata l’ondata dei latinoamericani) più di centomila persone.  

Venite in Salita Pollaiuoli, davanti alle facciate, restaurate e gelide, del Palazzo Ducale: è l’epicentro della nuova geografia ‘elegante’ dei vicoli. Ma questi sono anche gli stradelli del fumo, delle canne, dei giovani e dei bar di piazza delle Erbe, del vicolo de ‘Il Canneto il Lungo’ e della sua osteria degli Azenetti, gli Asinelli (è una bevanda ‘trucida’ e mozzarespiro di vino, martini e qualcos’altro di forte): questi erano i territori di Carlo Giuliani, questi sono i territori dei suoi amici, della sua cumpa dove, tra l’altro, si scrivono e si recitano poesie, della gente che, con lui, ha condiviso sogni e schifezze, nottate felici a suonare chitarre e canne su canne, allegrie sopra le righe e disperazioni, birra a fiumi e cazzate una dopo l’altra. E, soprattutto, amicizia, amicizia di quella vera, profonda, assoluta. ‘Sacra’, direbbe don Gallo. Autentica solidarietà. Vissuta come valore etico che niente può scalfire. Questo scopre chi prova a fermarsi fra questi vicoli a guardare questi ragazzi che, quando scende la notte, si siedono sui gradini, e bevono, si sballano oltre molti limiti, fumano una Diana dopo l’altra e rollano, senza tregua, spinelli di qualità. Accanto a marocchini che si fanno di tetrapack di Tavernello e a giovani dalle belle camicie che sorseggiano caibirinha seduti ai tavolinetti di plastica dei ‘barrini’.

Sono passati due mesi dalla morte di Carlo Giuliani. E’ passata un’estate torrida e irreale per chi ha vissuto, subìto, attraversato i giorni di Genova. Tornare in via Tolemaide, in corso Italia, in corso Torino, in piazza Alimonda, nei vicoli del porto vuol dire trovare le prove che quelle giornate di luglio hanno davvero segnato la vita e gli anni di una straordinaria generazione di giovani. Una generazione della quale Carlo faceva parte. E non solo per diritto anagrafico. In Piazza Alimonda, piazza della morte di Carlo, il pellegrinaggio è senza soste. In meno di un’ora avrò visto cento persone fermarsi: un ragazzo con addosso gli spruzzi sbavati di vernice da muratore arriva con il motorino, scende e con la mano sfiora la foto di Carlo; un ambulanza accosta al marciapiede: ne escono fuori due infermieri e mettono un fiore. Grandi fiori di carta portano anche due ragazzi che arrivano di corsa e se ne vanno subito dopo. Un uomo con la barba brizzolata parcheggia la sua macchina, si accende una sigaretta e si mette a leggere, con calma, i messaggi che ogni giorno qui si moltiplicano. Una donna porta acqua per i fiori. Un vecchio siede sui gradini della chiesa di Nostra Signora del Rimedio e guarda, con occhi di tristezza, la cancellata sulla quale è sorto questo monumento spontaneo in memoria di Carletto. E’ perfino arrivata una cartolina: viene dalla mia Toscana, raffigura un celebre paesaggio delle Crete Senesi. L’ha scritta Margherita: ‘La libertà è morta, tu no’. L’ha imbucata in Val d’Orcia e un postino genovese l’ha portata fin qui: ‘Carlo Giuliani, Piazza Alimonda, Genova’. Due ragazzi giovanissimi e minuti (lui ha capelli lunghi, lei ha un anellino al naso) vengono da Pisa: sono qui da due giorni. Non sanno perché sono venuti: erano con il corteo delle Tute Bianche quel giorno di luglio e sono tornati ora che l’estate sta finendo. ‘Per capire cose che non capiremo’, dicono. Si stringono quasi in lacrime: sistemano i fiori, spazzano il marciapiede, poi restano lì, seduti sui gradini, mano nella mano. Senza parole. Ma con occhi che raccontano la loro forza e il loro smarrimento. Al mattino, i ragazzi che si ostinano a dormire qui, in piazza Alimonda (‘Lo faremo a lungo. Per sempre’), hanno la faccia stanca e seria, segnata da un dormire impossibile: stanno assolvendo un dovere, un dovere che avvertono come impegno morale, sociale nei confronti di Carlo. E questa sarebbe la generazione senza ideali e identità?

Carlo, in questa Genova dei ragazzi, era amico di tutti. “Questa è la prima cosa che devi capire – spiega Pino, responsabile dell’Anlaids genovese, un uomo di quarant’anni, piccolo e magro come Carlo – Non puoi collocarlo o identificarlo. Veniva da Piazza Manin, dai quartieri borghesi di Genova. E, allo stesso tempo, frequentava i vicoli. Ci viveva. Stava bene con gli amici ricchi e con i ragazzi con i cani del Campetto. Salutava tutti. Non chiamarlo comunista, anarchico, di sinistra: le parole non servono. Carlo voleva conoscere la vita. Voleva sbatterci le corna contro. Voleva provare. Non solo sentir raccontare”. In piazza Alimonda qualcuno ha scritto: ‘Non siamo comunisti e non abbiamo ancora un nome. Siamo in tanti. Forse abbastanza’. Più tardi, in piazza delle Erbe, Pier Ugo, un altro amico più anziano (36 anni) di Carletto, si farà scappare: ‘Noi potremmo essere le nuove ideologie che magari riusciranno a nascere’. E Mara, 21 anni, ragazza dai sorrisi splendenti e dall’impegno politico serio e quotidiano (è del centro sociale Zapata e ha partecipato, nonostante l’età, fin dall’inizio alla storia delle Tute Bianche), mi avverte: ‘Non riesco a definirmi comunista. E lo spiego ai compagni più adulti per i quali questa parola ha ancora un senso. Carlo non era un militante, non era catalogabile, ma questa è la sua forza ed è la forza del movimento: questa è la vera moltitudine, la società civile. Se facessimo i cortei con i soli militanti, non riusciremmo a cambiare niente. E’ quando ragazzi come Carlo si sentono coinvolti in prima persone, è quando vi è mescolanza di persone che non fanno parte di niente che qualcosa può davvero cambiare’. 

Carlo che, ai tempi del liceo, va al coordinamento studentesco e passa di classe in classe per avvertire che il preside ha concesso l’assemblea. Carletto che va ai centri sociali (allo Zapata, al Terra di Nessuno) a sentire concerti e musica. Carlo che va alla parrocchia di San Bernardino a giocare a calcetto. Carlo che va al circolo Mascherona, un ‘centro sociale’ dell’Arci, in mezzo ai vicoli, e, alla sera, chiede ‘le sue due medie’ e si addormenta sul tavolo. Lo svegliano: ‘Dai, dobbiamo chiudere’. Sorride assonnato: ‘Sì, sì, scusami’. E se ne va, di notte, per i vicoli. Massimo ha diretto quel circolo, esperienza preziosa dei mesi invernali nel centro storico genovese: ‘Questi ragazzi non sono impolitici. Sbaglia parola chi te lo dice: sono pre-politici. La politica è la loro vita: rifiutano, consapevolmente, le dinamiche ‘normali’ della vita. E pretendono una vita diversa. Non hanno secondi fini. Hanno cultura. I ragazzi che si ritrovano agli azenetti sono poeti. E sono bravi. E sono sopra le righe. Sono radicalmente pre-politici. Sono oltre la politica. Ti dicono: ‘Meno menate, facciamo le cose’’. Massimo non lo dice e me ne assumo io la responsabilità: sono anche nichilisti (questa parola ricorre spesso nei vicoli quando si parla dei ragazzi, di certi ragazzi), hanno addosso energie e bellezze incredibili. Ma non sanno incanalarle. E nessuno sa offrire opportunità vere per incanalarle. Sbaglia di brutto chi li descrive come apatici. Pino, mentre parliamo, si alza in piedi e ricorda: ‘Hai presente le foto scattate in piazza Alimonda? Prima di avere l’estintore in mano, Carlo appare, per un attimo, com’era davvero: ha le braccia come se fossero molli, allungate sui fianchi, stese lungo il corpo. Guarda in basso. E’ come se attorno a sé non ci fosse l’inferno. Ecco, questo era Carlo. Stava spesso così. Come a pensare a chissà cosa’. Già, questi ragazzi possono apparire senza forze e senza scopi. Stanno sui gradini per ore e ore, per giornate intere e noi, passanti affrettati, crediamo che non abbiano niente in testa. E invece, come dice Enrico Deaglio, hanno ‘sale in zucca’. Scattano all’improvviso e rivelano energie impreviste, immense, creative. E anche devastanti. Non c’entra nulla, ma un’operatrice di strada di Roma, dopo Geonva, mi ha detto della sua sorpresa (e sono parole, in qualche modo, rivelatrici): ‘I ragazzi della strada, quelli con i quali è più difficile avere rapporti, quelli che pensi che siano irrecuperabili, sono andati tutti a Genova. E’ stato un richiamo irresistibile. Si sono mossi e io non l’avrei mai immaginato’. 

Lo scorso inverno i ragazzi della cumpa degli azenetti (non solo loro) si ritrovavano in un’aula occupata dell’Università (a Genova è la celebre auletta, occupazione che risale ai tempi della Pantera): per qualche giorno sopra la porta aveva campeggiato uno striscione: ‘Il segno di una resa invincibile’. Questa è roba di culto, da esperti: è il titolo di una storia di Andrea Pazienza, disegnatore grandissimo, morto, anni fa, di eroina. Ed è la storia di un gruppo di amici che ruota attorno a una figura carismatica. Alla fine quest’uomo muore. Ma la sua morte è un suicidio non detto, non annunciato. Muore perché semplicemente il suo cuore si ferma. ‘E’ una resa invincibile – dice Massimo – Capisci chi sono questi ragazzi? Cos’è la loro vita?’. Non so, non so se capisco. Forse sì. E mi spaventa. Sempre a piazza Alimonda, un altro ragazzo ha scritto a Carlo: ‘Io non ti conosco, ma ti invidio una cifra’. Nessuno ha il coraggio di vivere come loro, solo per ascoltarli e non per dettare regole o comportamenti. Per questo adorano don Andrea Gallo (fino a farne un mito): perché lui, nei vicoli c’è; i ragazzi lo vedono, sanno di poterci contare la notte che andrà proprio storta.

Racconta Pino: ‘Sai cosa avrebbe voluto fare Carlo? Montare e smontare i palchi, metter su le luci e le strutture dei rave in giro per l’Italia e l’Europa’. E invece, come molti (quasi tutti?), qui nei vicoli, si arrangiava. Lavori saltuari, precari. Mi spiegano: ‘Qui i ragazzi fanno i muratori, gli elettricisti, lavano i piatti in qualche ristorante, fanno i camerieri nei bar. Spesso le famiglie aiutano. I ragazzi prendono quel possono e quel che li danno. E, alla fine, si arrangiano. Il limite fin dove arrivare lo stabiliscono di volta in volta. Qui nel porto è sempre stato così: io ricordo gli strassè che scendevano dalle colline per vendere e comprare gli stracci’. E per la casa è lo stesso: i ragazzi vogliono venire a vivere nei vicoli. Ma come pagare l’affitto? E allora ecco gli amici e le amiche che, qui, due, tre stanze ce l’hanno già: ti ospitano. Per giorni. Poi per mesi. La tua roba sta tutta in scatole di cartone, valige che cambiano spesso armadio o sgabuzzino. Il futuro non esiste (o quasi) per questi ragazzi. Mi dice Pino: ‘La precarietà è assoluta’. Mi svela Pier Ugo: “Il ‘qui e ora’ è fondamentale. I sogni non li realizziamo, ci resta il presente. Però, attento, i ragazzi hanno un ottimismo di fondo. Se scivolano nel pessimismo è l’apocalisse”. Il futuro è indefinito, è una nuvola scura, ma, a volte, non riesci a fare a meno di pensarci. Dice Pier Ugo: ‘Mio figlio, e poi il figlio di mio figlio, dovranno star bene. Io sarò un padre di merda, ma voglio un mondo diverso loro. Non posso accettare che ci abbiano rovinato l’aria e l’acqua. Mio figlio non deve vivere in questo schifo, in questo mondo senza giustizia’.

Già, la giustizia. Parola facile e abusata? No, sicuramente è parola vaga, forse non sono capaci di definirla, ma questi  ragazzi ne intuiscono a pelle il significato: hanno etica, valori, sensibilità. Hanno creatività (ma senza possibilità di verifiche – che forse temono) e un ego spropositato: quando ne hanno l’occasione (visto che sono poeti e la storia dei poeti-maledetti li affascina come bambini) afferrano i microfoni e non li mollano quando recitano le poesie. E’ accaduto anche al funerale di Carlo: ed erano poesie belle, con pensieri dentro, non erano semplici parole messe in fila. Dice don Gallo: ‘Sono ragazzi vivi. Vogliono cambiare il mondo, sanno cos’è il bene comune. Hanno una fortissima ‘singolarità’: per questo vanno ai cortei. Perché è una sfida, perché hanno avvertito l’arroganza dei potenti sulla loro pelle. E vogliono essere in prima fila, vogliono smascherare la menzogna”. E ancora: “Non vogliono maestri, non vogliono il potere. Ma pretendono rispetto dal potere, pretendono, con forza, rispetto per le loro intelligenze, chiedono pari dignità”. Non vogliono regole: Carlo attraversa per pochi mesi Rifondazione Comunista. Ma ne esce in fretta. Credete davvero che Rifondazione sappia ascoltare un ragazzo come Carletto? Non è compito di un partito ed è un’identità che non può farcela a restituire la complessità della vita. Pone troppi vincoli. No, questi ragazzi non vogliono davvero lacci alle loro esistenze: i ragazzi di strada dei vicoli (quelli che proprio ci vivono) non si fanno certo vedere ai dormitori della comunità di San Marcellino. Spiega Luca Corona, 33 anni, gesuita  che coordina i servizi di questa storica associazione genovese di aiuto ai senza fissa dimora: ‘Le nostre regole sono davvero troppo strette. I ragazzi di strada non verranno mai a chiederci aiuto. Non vengono nemmeno ai centri di ascolto. Forse qualcuno viene a chiederci, qualche volta, un buono doccia. Sono incostanti. Ma sono generosi, sfrontati, autentici. Vogliono vivere la vita che si sono scelti. Sono coraggiosi perché sanno che questa scelta la pagheranno. E cara. Ma non vogliono essere calpestati. E Genova, nei giorni del G8, si è sentita umiliata, offesa. Alla fine ha avuto anche una vittima. E questo ha aggiunto dolore. Perché, e in città si avverte, Carlo è un ragazzo di Genova”. E’ vero: fra i vicoli, molti ragazzi mi dicono che non vogliono parlare di Carlo. Non se la sentono. Non ce la fanno nemmeno a partecipare ai presidi in sua memoria. Troppo grave, troppo dolorosa è la ferita che non vuole richiudersi.

Scrive un’amica di Carlo, una ragazza che aveva lavorato (fatto volontariato) con lui ad Amnesty International (Carlo, in questa organizzazione, ha fatto tutti e dieci i mesi dell’obiezione di coscienza. Con qualche difficoltà, con qualche fatica, ma li ha fatti fino al dicembre del 2000): ‘Era un ragazzo molto generoso e idealista, spontaneo, ma anche fragile e ingenuo. Forse prigioniero del mito del padre: ne condivideva gli ideali, ma per differenziarsi da lui li esprimeva in modo molto diverso. Per questo si era allontanato dai giovani comunisti per spostarsi ‘un po’ più a sinistra’, verso un comunismo vero e radicale’. E ancora, quasi a non separare i lati ‘buoni’ e i lati ‘cattivi’ di ognuno di noi (ma cos’è questo buono e questo cattivo?), appaiono, anche nelle parole di questa ragazza, le ‘brutte abitudini’ di Carlo: le sigarette, la birra a fiumi, le derapate in motorino a fari spenti, la droga. La ragazza colpisce con durezza: ‘Per il 90% della gente Carlo è un delinquente, il 10% lo considerà un eroe o un martire. Ma nessuno, tantomeno i giornalisti, potranno capire mai chi era Carlo, con il suo entusiasmo, la sua repulsione per le ingiustizie e la sua voglia di cambiare il mondo, ma anche i suoi momenti-no e le sue tante contraddizioni’. E poi le domande senza risposte apparenti: ‘Come può un obiettore di coscienza lanciare sassi ed estintori con il volto coperto? Come può? Perché l’ha fatto’. Nessuno ha risposte certe e allo stesso tempo tutti le intuiscono.  Com’è simile la ‘fotografia’ di Carlo a quella di Massimiliano, un altro ragazzo (più vecchio: ha 30 anni) di piazza Alimonda. Purtroppo per lui (‘Un gesto stupido e irreflessivo’) è conosciuto oramai come ‘l’uomo con la trave’: è lui che, nei terribili fotogrammi dell’assalto alla jeep dei carabinieri, in quel maledetto venerdì di luglio, sbatte quell’asse di legno contro i finestrini della camionetta. Mi raccontano: ‘E’ mitissimo, perfino timido, sempre sorridente. Impolitico. Ma presente, a modo suo, nelle cose. Fa parte del giro allargato dei ‘barrini’’. E il suo locale, fra i vicoli, non è così ‘duro’ come l’osteria degli azenetti, anzi è vagamente di ‘tendenza’, con serate musicali a tema. E anche lui adora il calcio. E tifa Genoa. E fuma qualche spinello. Ma sono sempre così simili le storie dei ragazzi dei vicoli? Se chiedo ad amici di Amnesty a Genova di descrivermi Carlo, le parole che usano sono ‘fragilissimo, gentile, sveglio. Con i suoi alti e bassi. E, soprattutto, mai violento’.

Carlo leggeva Dylan Dog e si perdeva, con passione, fra i rebus e le parole incrociate della Settimana Enigmistica (‘Ma faceva quelle cose difficili, il Bartezzaghi’). Aveva sempre con sé la Gazzetta o il Corriere dello Sport, quasi giornali status-symbol. Già, il calcio. Il calcio è tutto per questi ragazzi. All’osteria degli Azenetti ci si accapiglia per il calcio, se ne parla per ore, ci si infuria con chi osa far trapelare simpatie per la Sampdoria: queste sono frontiere genoane. ‘Ma Carlo era onesto: tifava per la Roma, la squadra della città in cui era nato – dice Pino – Non mi va chi tifa per una squadra di una città diversa da quella di origine’. La lealtà, il senso di una lealtà ai colori di una maglia, è un valore vero per i ragazzi del tifo. Il mondo degli ultras ha le sue fedeltà, i suoi patti, le sue leggi non scritte. Durissime, magari violente e scorticanti, forse incomprensibili e inaccettabili a chi è fuori dai gironi del mondo degli ultras. In piazza Alimonda  i ragazzi hanno lasciato maglie e sciarpe della Roma. Ma anche adesivi del Genoa (e un biglietto della partita Genoa-Treviso) e degli ultras del Pisa (Ultras against racism). Spiega Matteo, del centro sociale Zapata: ‘Il tifo è un senso di appartenenza forte. Di trovarsi assieme in modo diverso’. Aggiunge Mara: ‘E’ un modo come un altro per stare assieme, è voglia di socializzazione’. A Genova, città con due squadre divise da rivalità che sono nel sangue e nella testa, il tifo è storia. Anche tragica: anni fa, davanti a Marassi, morì Vincenzo Spagna, tifoso della Fossa dei Grifoni, ex-portuale, ultras del Genoa. Ancor oggi, la sua morte è ricordata dalla gente dei vicoli. E nel 1987, furono gli sharp, duri genoani, a darsi da fare, più di altri, a mettere su il primo centro sociale occupato a Genova, una chiesa sconsacrata persa fra i vicoli del centro storico. ‘E’ un ambiente difficile – avverte una ragazza del Genoa Social Forum – E’ gente che fa la voce grossa. Sono machi, sessisti. Si infiammano per un nonnulla. Credono nell’antifascismo tosto e militante’. ‘Hai presente il film Il gladiatore? – chiede Pier Ugo – E’ la stessa cosa: si va allo stadio come i romani andavano all’arena. A veder le squadre scannarsi. Per un passione, per la sfida, per l’adrenalina che ti regala’. E poi aggiunge senza riprendere fiato: ‘Io odio la violenza. E il calcio è bello. Mi piace la gioia dopo la vittoria. Mi piacciono i nervi dopo la sconfitta. Mi piace il prima e il dopo di una partita’. E come si concilia la timidezza di Carlo, la gentilezza dei ragazzi come Carlo, la loro mitezza e la loro fragilità con la violenza che ruota attorno alle tifoserie più estremiste? Serve a qualcosa se dico che il calcio di oggi (con i suoi miliardi, i giocatori che cambiano maglia ogni giorno, mai una giornata senza una partita) fa schifo? ‘No – mi dice Pino – Io ho quarant’anni e posso essere d’accordo con te, ma i ragazzi come Carlo hanno conosciuto solo questo calcio. E non quello dei tuoi tempi’. Carlo, quando poteva, se ne andava in giro per l’Italia, a seguire la Roma. Passione vera, energia vera. ‘Il giorno dello scudetto giallorosso è stato il suo ultimo giorno felice’, ricorda Pino. Tornò contento dall’Olimpico, tornò con una bandiera presa in quello stadio di vittoria, in quell’invasione confusa e ribelle a fine partita. Quella bandiera è stata poi stesa sulla bara di Carlo. Assieme a una coperta che era stata preparata da Pino (pittore bravissimo) per ricordare, nel giorno dei G8, i caduti sulla frontiera dell’Aids: avrebbe dovuto essere messa per terra, sul lungomare di Boccadasse, là dove i cattolici digiunavano per protestare contro il vertice dei Grandi della Terra. La coperta raffigura un uomo dietro le sbarre e ha impresso due parole: ‘Disagio e Speranza’.

C’è una fine a questo viaggio fra i vicoli di Genova? No, non può esserci. Ci sono ancora tante, troppe immagini, troppe contraddizioni che lacerano. Forse anche reticenze. Cose non dette, non scritte, non indagate o appena accennate: come i guai di Carlo con la cocaina di strada, i suoi viaggi all’ospedale San Martino a prendersi lo sciroppo, il metadone (ma anche qui, anzi soprattutto qui, fra compagni di sventura e di volontà di uscirne, nascono amicizie, solidarietà, storie). C’è anche questo nella vita di Carlo. Pino mi assicura: ‘Ne stava uscendo. Io lo so quando un ragazzo vuole uscirne: è la mia storia e quindi conosco ogni passaggio. Carlo voleva venire a lavorare qui all’Anlaids e doveva fare tutto il percorso per venire fuori dalla droga. Era pronto’.

Nei miei giorni di Genova ho scelto di non incontrare la famiglia, di non parlare con il padre. Avrei voluto parlare con la madre. I colloqui frettolosi con i giornalisti hanno sempre qualcosa che non assomigliano alla realtà e, tantomeno, alla verità: si recita entrambi, io che faccio domande e l’intervistato che deve inventarsi una risposta. Ma ho visto i genitori di Carlo: seduti sui gradini della chiesa di piazza Alimonda. Parlavano, con serietà ed affetto, con i ragazzi che lì dormono. Mi sono apparsi stremati. Ho visto la madre (anche lei piccola, dall’aria fragile e minuta), l’ho vista sistemare per bene i fiori, raccomandare a una ragazza di non accendere i lumini perché c’era il rischio, che, con il vento, tutto andasse a fuoco. Ho visto i suoi occhi trattenere, senza riuscirci, le lacrime. Ho ‘capito’ di un dolore irreparabile. E sono rimasto in silenzio. Ci siamo scambiati un sorriso: sorriso che lei regala a chiunque incontri davanti all’altare eretto per suo figlio.
Nei giorni di Genova, ho fatto, comunque, molte domande, ma, in realtà, volevo solo guardarmi attorno, vedere questi ragazzi, afferrarne frammenti di storia, subirne il nichilismo distruttivo e godere della loro energia vitale. Avrei voluto essere invisibile. Così non è stato: agli Azenetti mi hanno identificato subito. Cinque minuti dopo che mi ero seduto a un tavolo con un bicchiere di vino davanti, un ragazzo sopra le righe si avvicina e mi dice con agitazione: ‘Giornalista?’. Imbarazzo. ‘Sai, qui, con questo ragazzo che è morto, ne abbiamo visti troppi. Tu hai la faccia per bene, ma non ci fidiamo’. A Genova il ‘controllo sociale’, nei vicoli, è alto: se non sei conosciuto, ti notano. O poliziotto o, di questi tempi, giornalista. In quella serata, agli Azenetti, scavalcato l’imbarazzo (avevo in borsa un libro su don Gallo e questo ha aiutato. E molto), abbiamo parlato, per ore, di fumo, di calcio e di birra. E del mondo che fa schifo. E, sempre, come un ossessione, anche se io non facevo domande, di Carletto.

Mentre camminavo per i vicoli di Genova, correvano per la testa le parole del padre di Carlo. Dette al suo funerale: ‘Mi hai insegnato molte cose. A non giudicare un ragazzo dalla maglietta sdrucinata, dai pantaloni bucati, dai piercing, dalle treccioline. Dietro questi pantaloni bucati si sono cuori pieni e teste che pensano e un’impagabile sete di giustizia. Questi giovani vogliono un mondo meno schifoso. Anche noi lo vogliamo. Ma loro lo vogliono subito. Invece noi della vecchia scuola sappiamo che occorre pazienza. Il vostro passo è troppo veloce. Il nostro è troppo lento. Ma non si può aspettare cento anni. Noi dobbiamo accorciare i tempi’. Già, abbreviare i tempi per un mondo ‘meno schifoso’.

A Genova, migliaia e migliaia di ragazzi, nei giorni di luglio, hanno perso verginità politiche, sociali, morali. Ne avevano già poca, ma hanno perso del tutto fiducia nello Stato: questa è la vera colpa, gravissima, irreparabile, delle forze dell’ordine e di chi le comandava in quei giorni. I ragazzi dovranno ritrovare questa fiducia. Faticheranno a ritrovarla nei rischi di quest’autunno.  Alex Langer, il vero protagonista dei primi passi di questo movimento, un altro uomo caduto sulla frontiera del desiderio e dell’impossibilità di giustizia, suggerì nelle sue ultime parole: ‘Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto’. Siamo tristi, Alex ci manca da morirne, ci mancano le sue parole, il suo aiuto, la sua amicizia. Carlo ci mancherà come un fratello con il quale stavamo provando a camminare assieme.

P.s. Dimenticavo: Carlo Giuliani riposa a Staglieno, nello stesso cimitero in cui ha trovato rifugio Fabrizio De Andrè. Che, almeno, si possano cantare l’un l’altro belle canzoni. Per dimenticare, senza dimenticare, le ore della follia.