venerdì 11 febbraio 2011

Perché un viaggio in Dancalia

Cerco di ingannare. Fra dodici ore, insh'allah, sarò su un aereo per Addis Abeba. Poi ci sarà la Rift Valley e, infine, la Dancalia. Continuo a chiedermi perché si va in Dancalia. Cerco di ingannare con una risposta. 



Molti anni fa. Vicino al Fantalè


C'è un alibi per venire fino a queste terre desolate?  Ha un senso fare migliaia di chilometri per camminare sull’orrore perfetto di un vulcano in eruzione? Non lo so. Non me lo chiedo più da tempo. E’ come domandare a un alpinista perché scala montagne. Conosco la risposta: è un gesto gratuito, innocente, anche se nasconde punte di vanità. Arrampicarsi verso una cima non ha fini nascosti, è un’azione limpida, ‘affranca dal dovere di essere utili’. Non ci sono vere ragioni per andare in Dancalia. Ho una mia risposta molto personale, ma la uso per convincermi e per dare un tocco di romanticismo. Un po’ vera, un po’ voglio che sia vera, un po’ vi faccio credere che sia vera. Io ho tentato, con testardaggine e insuccessi, di arrivare più volte in Dancalia solo perché un giorno, sulle coste del mar Rosso, là dove onde azzurre accoglievano una colata di lava nera, mi trovai di fronte un pastore afar. Era giovane, magrissimo, spigoloso, muto. Come sempre accade, era apparso all’improvviso. Aveva gli occhi da uomo della notte. Non c’era nessuno là attorno e dal nulla spuntò questo ragazzo con uno stecchino fra i denti e un pettine infilato fra i capelli arricciati. Un grosso pugnale ricurvo stava appeso alla cintura. Era appoggiato a un bastone. Come faccio a spiegarvi che rimanemmo lì per quasi un’ora. Senza dirci nulla. Le sue capre erano pazienti, c’era erba fra quei ciottoli di lava. Indossava una maglietta rossa e un tubo di stoffa sbiadita faceva da gonna. Si accucciò sui talloni. Io mi sedetti. Non so quanto durò. Non riesco a raccontarlo. Forse sembravamo due perfetti imbecilli. Ma io, come posso spiegarvelo? Sentii un senso di amicizia che, in Africa, non avevo ancora provato. Ho ancora addosso la sensazione superba di aver stretto un patto di sangue con quell’uomo che mai avrei rivisto. Se ne andò. Il suo bastone a tracolla delle spalle, i suoi passi erano ondeggianti, le capre in fila dietro a lui. Non ci eravamo detti una sola parola. Quale, poi? Un cenno con gli occhi quando decise di alzarsi. Non si voltò mentre si incamminava verso il sole che stava tramontando. Ho ancora in mente la sua ombra che tremola contro il cielo. Ecco, vado in Dancalia per un debito di gratitudine verso quel pastore afar. Non lo riconoscerei nemmeno se lo incontrassi nuovamente. Vado in Dancalia perché gli afar sono riusciti a trovare una nicchia nel mio cuore e nei miei pensieri. I vulcani, la lava, i paesaggi estremi sono solo (non è poco) il fondale di un palcoscenico di una umanità straordinaria.
San Casciano in Val di Pesa, 11 febbraio, ore 12.47. Chiudo il computer, dimentico le altre storie

lunedì 7 febbraio 2011

Il bar del paese

La Perla Nera


Al mattino, prendo la macchina e vado al bar del paese. Arrivo verso le otto. Non è un granchè come bar. La televisione è sempre accesa su Canale 5, ma i giornali sul tavolo sono di sinistra. Le paste hanno un’aria da giorno prima. Prendo un budino, consigliato dalla barista, e il caffé.
Ogni mattina, seduta a un tavolinetto, c’è una donna dall’aria sfasciata. Con la figlia. Credo che sia la figlia. Penso che hanno passato una brutta notte. La madre è in tuta. A volte parla con voce di sigaretta. La figlia ha un colore bianco. Dopo un po’ si alza e va a prendere una corriera. Ci sono poi dei vecchi. Uno è senza gamba. Parlano di caccia o stanno zitti. Rivolti verso il bancone, la gambe larghe, seduti come se stessero sempre per alzarsi. Un uomo ha il berretto tirato fino a metà testa. Fa freddo al mattino. La ragazza del bar ha una felpa grigia e un anellino al naso. Sa sempre cosa vogliono i suoi clienti. A un certo punto gli uomini si mettono a giocare alle slot-machine. Il vecchio senza una gamba gioca, ogni mattina, venti euro. A volte c’è lo scroscio delle monete. Ma lui le rigioca tutte quante. Una per una. Più d’una assieme. In silenzio. Poi se ne va. Poi se ne vanno tutti. Poco prima delle nove, lo spettacolo del bar è finito. Si ripete ogni mattino. Da quando sono qui, è sempre accaduta la stessa scena. Un giorno c’è stata una variante: la ragazza del bar era nervosa, non riusciva a telefonare, e allora, con uno scatto di rabbia, ha gettato il telefono per terra. E poi non lo ha più guardato. Mi ha fatto il caffé, senza alzare gli occhi. Quando me ne sono andato ha detto: ‘Il telefono è lì’.
Ho pensato: anni fa, i vecchi di questo bar, operai della fabbrica, mezzadri spolpati, minatori senza denti, sarebbero seduti negli stessi posti. Ma con un bicchiere di vino davanti e le carte della briscola. Il cappello in testa. E qualche parola con voce arrabbiata a fare da colonna sonora. Oggi l’uomo senza una gamba, in silenzio, gioca la sua pensione con tre figure (ciliegie, denari, carta) mosse da una macchina.
Pago il mio conto. Dovrò raccontare altro quando mi toccherà scrivere di questo paese.

Non dico il posto. Perché io amo questo bar. E il suo budino. Se dicesse dove sono, si capirebbe quale è il bar e magari la ragazza con l’orecchino si arrabbierebbe ancor di più, 2 febbraio.


martedì 1 febbraio 2011

C’entra la bellezza con l’economia? Andare a Fermo per intervistare Mario Dondero, 83 anni, fotografo del Novecento, per un libro sullo ‘sviluppo umano’ si avvicina a una piacevole stranezza. Gli economisti sanno misurare la bellezza? O quantificano solo il suo valore economico? Mario seduce, avvolge, corteggia. E stanca. Stanca con la sua energia, con la sua forza, con le sue parole. Conquista la scena e non la molla più. Si può solo amarlo, senza interrogarsi. Si può solo farsi manipolare con felicità leggera. E poi, magari, fuggire per riprendere fiato. Ma sono le sue foto a fermare la fuga, le sue foto imperfette che raccontano alla perfezione un secolo che se ne è andato. 
Naturalmente non è stata un’intervista. Una non-intervista può apparire in un libro di economia. Si capirà, in filigrana, che un mondo senza bellezza è privo di qualsiasi speranza anche i conti del suo Pil si impennano?
Forse anche raggiungere un vicolo, stretto e umido in inverno, aiuta a comprendere meglio il mondo.

Mario Dondero nella piazza di Fermo



 E poi la casa di Mario. Piccola, buia, in un vicolo di ciottoli. La casa si riconosce per i ciclamini che resistono al gelo. Rampicanti privi di foglie provano a raggiungere le finestre. Il cibo per il gatto, appena entrati. Non c’è un tavolo dove mangiare. I soffitti bassi. Casa da comune studentesca per un uomo di 83 anni. Un occhio arrossato da una infezione. I soliti pantaloni, la cravatta rossa dal nodo troppo grosso, il golf giallo messo ogni mattina. Non c’è una sedia dove sedersi. Sono occupate da scatoloni di foto. Foto, provini, vecchi stampe lucide e sbiadite ovunque. Sopra i letti, per terra, sugli scaffali. Non si può fare movimenti bruschi. Non c’è spazio. Mario regala foto e libri. La stanza è appena scaldata da un vecchia stufa. Giriamo per le scale dalle vernice rossa. Le pareti sono un affresco del Novecento. Locandine di mostre. Foto di Paul Gauthier, di Pasolini…foto di uomini che sono passati di fronte al suo obiettivo. Come se lui fosse lì per caso. Ma non era mai un caso. Come Kapuscinski, Mario voleva essere lì. Un mondo in bianco e nero. Nessun trucco, se non quello della seduzione. Fotografo imperfetto. Click della vecchia Nikon FE. Silenzio senza fruscii della Leica. Fuoco e diaframma sono storie secondarie. E’ l’uomo che conta. Mario fotografa perché vuole raccontare l’uomo. Perché vuole avere una relazione con l’uomo.
‘Non ho mai amato passare il tempo nella camera oscura. Ugo vi stava nove ore per un’unica foto. Io ho sempre preferito l’aria aperta. Non ho mai amato la tecnica’. Ugo è Ugo Mulas. Hanno vissuto assieme nella Milano del bar Giamaica. Ne ha raccontato Luciano Bianciardi nella Vita Agra. Che Italia povera e geniale, era quella. La foto di un Che Guevara orgoglioso sorveglia il suo sonno accanto alla cavalcata dei barbudos in marcia verso l’Avana. La foto della moglie, il letto ben rifatto. Mario ce lo offre per la notte. Ma non possiamo sfrattarlo. Dove mangi, Mario? Non ci sono tavoli sui quali poggiare un piatto. Foto della compagna di Modigliani. Foto di Lenin da giovane. Queste non le hai fatte tu. Foto che ti ritraggono con comandanti partigiani, in una nave sul Nilo. Foto dalla parte dei miserabili. Foto con il tuo sguardo astuto, finto timido, che riesce a fotografarmi senza macchina. Un obbiettivo Nikon 50 fuoco uno e quattro, abbandonato. Davvero c’è un secolo qua dentro. Spostiamo carte e scatoloni per sedersi. Gesto sacrilego, il registratore senza un nastro che gira. Minuscolo oggetto che rompe l’equilibrio.  Che ci fa il mondo virtuale in questo universo reale? Proviamo a parlare. Ma il gioco dell’intervista non può funzionare fra noi. E allora lasciamo scorrere le parole sapendo che c’è ben altro nella vita. Il pollo arrosto di stasera, certamente. E il viaggio sotto la neve del giorno dopo. Parole confuse. Come è confusa la nostra vita. Facciamo tutto pur di non farci raggiungere.   
Fermo, 30 gennaio

Addio. Nel primo giorno dell'anno

Ho atteso. Non ero certo di volere mettere questa pagina in questo spazio così aperto e così incomprensibile per chi è nato nell'epoca della carta. E' passato un mese da un addio. Oggi, non so bene perché, ho deciso di affidarlo a questo luogo che non conosco. Forse perché non voglio dimenticare. Forse perché che non voglio che si dimentichi. In questi mesi ho scritto dei molti istanti, dei molti addii che hanno segnato i miei giorni. Ognuno ha la sua forza. Il suo essere unico. Ognuno dovrebbe essere raccontato. Perché l'uomo, qualsiasi uomo, deve lasciare tracce. Questo addio è stato dato il primo giorno dell'anno. Di quest'anno. 



Venezia


Vi è del sacro nella cerimonia che non è tale. Sono arrivati da lontano. Dalla Francia. Dalla Norvegia. Per un addio. Non è laicismo, è vita. La vita è fatta di cibo, sorrisi, lacrime, dolore, gioia. Intensa, in un giorno. Intensa e calda, in un giorno di freddo che congela la punta dei piedi. Al mattino, la nebbia era in equilibrio con il sole. Non si sfidavano. Convivevano. Sono andato fino alla grande agave. Da là il panorama si apre sulla valle. Il gioco dura un attimo. In tempo per vedere la strana forma della radura sulla collina di fronte.
Un giorno per l’addio. La casa è piena di ragazzi. Dagli occhi seri, dagli occhi rossi. Gli amici dei figli. In due gruppi. I più piccoli. I più grandi. Non si staccano. Si sfiorano le mani, gli abbracci, i baci che vorrebbero darsi. La casa è una biblioteca. Libri dovunque, Nel piccolo dedalo delle stanze che si intrecciano una sull’altra. Libri sulle scale, libri sotto il cuscino del divano. Il grande ritratto di lei, in abito bianco. Un quadro solare. Quante cose ci si lascia dietro. Quanto ingombro, quanta bellezza, quanta storia che pesa come un macigno, che è leggera come il tempo che passa. Si mangia, pentola sul tavolo, un buon vino, come se fosse una festa, come se fosse il primo di gennaio, come se i parenti fossero venuti per un incontro di gioia. Si parlano molte lingue. Lei è di là. Nella stanza piccola. Un corpo.
La grande carta della Grecia. Una mappa geografica di altri tempi. Ricorda gli anni della nostra scuola lontana. La casa è davvero troppo piena. Ma ogni oggetto non è figlio di un caso. Ma di una memoria. Una memoria che voleva essere conforto per gli occhi. Adesso cos’è?
La foto grande. Ha i toni bluastri di una foto scattata all’ombra. E’ una foto o un dipinto? Giardino di Boboli, ne sono quasi certo. Cosa significa questa foto? Perché è così grande? La statua raffigura un cane e osserva, con curiosità immobile,  una parete di cieli azzurri, di nuvole in fuga, di tramonti esuberanti, di giochi di vento con cumulonembi che diventano figure alate. E’ la bellezza. Un cane di pietra che osserva la bellezza. E il tuo corpo è quasi decentrato da questi sfondi. Forse perché non ho il coraggio di guardare. Mi appoggio allo stipite della porta.
Si muore l’ultimo dell’anno. Non si è più forti della morte l’ultimo dell’anno. Giorno-simbolo. Giorni che si mettono nella memoria. Io fatico a ricordare il giorno della morte di mio padre. Delle ultime ore di mia madre non ricordo nemmeno il mese. Faceva caldo, questo lo rammento. Nient’altro. Ero un ragazzo quando morì mio padre. Ero come questi ragazzi che stanno sul divano e non vogliono staccarsi uno dall’altro? Ricordo il padre di Fiammetta che venne fino a me e mi lasciò sua figlia davanti e le disse: ‘Stagli vicino’. Io avevo le mani in tasca. Faceva freddo, almeno credo di ricordarlo.  
Ora sto in piedi nella stanza piccola. Mi sono staccato dalla porta. Ma non faccio un passo. Forse penso a tutti gli anni nei quali non ci siamo visti. Penso a un vecchio viaggio a Milano fatto assieme in cerca di un lavoro improbabile. Penso a un capodanno che aveva un forte valore: il duemila, la notte del millennio. Ricordo l’orgoglio della tua pancia di donna di quarant’anni nelle vie del quartiere: ‘Sono brava, no?’.
Ancora un addio. Nel primo giorno dell’anno.
Rino ha molti anni e l’aria del vecchio professore. Una giacca di velluto a costoni larghi. Altri tempi. Chiede di leggere una pagina. Di poeti e di parole che aiutano a non credere alla morte. ‘Vieni’, finisce così il suo dire. Il figlio si avvicina al padre. Che si sfiora gli occhi per negarsi il pianto. Anch’io stringo la mano a mia figlia. Ci sono momenti in cui i gesti vengono fuori. La normalità che dovrebbe essere.
E’ l’ora. Il carro ingombra la piccola strada selciata. Vicolo della città popolare. La cassa non può salire, deve scendere il corpo. Avvolto nel lenzuolo azzurro. Ci vorranno giorni perché tutto diventi davvero cenere. Oramai ci sono file di fronte ai forni della cremazione. Allora bisogna sigillare, dicono gli uomini dalle facce ceree e l’aria inconfondibile di coloro per i quali la morte è un lavoro. I quattro uomini sono abituati al dolore. E non cambiano espressione. Sanno come non avere pensieri. Sembrano fuori posto. Sistemano i fiori senza nessuna cura. La macchina parte.
Non ci sono posti vuoti alle Cappelle del Commiato. Fa freddo. Dentro e fuori. Si muore davvero anche il primo gennaio. C’è molta gente. Andirivieni di un dolore che non grida. E’ quasi imbarazzo. Non c’è nessuna sacralità in queste ore dopo la morte. Ogni sentimento è schiacciato dai luoghi e dalle regole della burocrazia. Dalle abitudini di gente che ne ha viste troppe per sentirsi parte di qualcosa di sacro. Il custode ha una voglia di vino su metà della faccia. E’ efficiente e brusco. Dà consigli furbi ai dolenti. Le cappelle sembrano stanzette riservate. Su ognuna il nome, scritto a penna. Non fanno portare fiori. Rimangono fuori. Nel piazzale. Intravedo le casse degli altri (nessuno usa il termine bara), un velo sul corpo, la targhetta fuori scritta a mano, i parenti seduti su sedie di plastica verde. Nella ‘nostra’ stanza’, l’ultima, il fratello legge una poesia. Il lutto prende forma. I ragazzi non lasciano un solo secondo i figli. Qualcuno sfiora con una mano il legno della cassa. Un saluto.
Si torna nella casa del piccolo vicolo. Il giovane ragazzo migrante spolvera i libri con inutile meticolosità. Qualcosa deve pur fare. La cucina si riaffolla. Si prepara burro e salmone, si racconta di vecchi viaggi. Per vedere la Rivoluzione del Portogallo. 1975. Quanti anni sono passati? Quanto tempo? Sono belli i ricordi. Si apre un barattolo di crema di formaggio di capra. Hanno preparato uno strudel, un dolce all’arancio. Un vecchio ha portato un sacchetto di noci. Si apre un vinsanto e un Franciacorta. Si parla. Andirivieni di gente. Arriva anche il pittore che ha dipinto il suo quadro. Scambio telefoni, porto in giro il vassoio con il pane con burro e salmone. I ragazzi giocano in cerchio occupando l’ingresso. Andiamo via. Sfioro le mani della figlia. Prometto. Il figlio è andato a fare un giro per la città stremata dalla fine dell’anno. Firenze, oggi, non è bella. Ha un’aria stanca. Fuori fa freddo. A gennaio, l’inverno si fa livido sul serio.
Vorrei che anche il mio addio avesse la strana bellezza di queste ore appena passate. Questa strana normalità. Di un addio che non appare tale. I momenti della solitudine sono nella notte che verrà. Riappariranno di continuo. Il gatto color di un’arancia si aggira per la casa. Ci saranno momenti di tranquillità. Momenti in cui le lacrime si intrecceranno con i sorrisi. Nello stesso equilibro di una mattino di nebbia e sole. La vita si è incrociata con il suo mistero nel primo giorno dell’anno.
Addio. 
Firenze, due gennaio