venerdì 30 settembre 2011

Etiopia/I calzini blu elettrico di Ahmed


Il vecchio bar di Ahmed
I calzini blu elettrico di Ahmed. Devono essere bagnati di acqua salata tanto é intenso il loro colore. La fascia rossa attorno ai capelli di Workelu, donna dell’altopiano, scesa fino a qui con i militari. Una miss, come si affrettano a spiegarmi. Non ha seguito il suo plotone quando i soldati se ne sono andati. Lei, donna di montagna, donna del freddo, ha deciso di rimanere ad Ahmed Ela, fornace dell’Etiopia. E vi ha aperto una buna-biet, una casa del caffè. Gli autisti si siedono attorno a lei e Workelu, con un ventaglio di paglia, tiene in vita le braci sotto il bricco del caffè. Una parete divisoria garantisce un po’ di vita privata. Bella, la fascia rossa di Workelu. Colpiscono i colori ad Ahmed Ela. Perché non ve ne sono. E’ come se un’indefinibile tinta di polvere di sale e cenere avesse ricoperto della stessa patina le capanne, gli uomini, le donne, le pietre, i cammelli. E gli occhi, allora, inseguono, come se fossero coccinelle, le magliette cinesi, sbiadite dalla fatica, dei cavatori: hanno i colori dell’Inter, del Barcellona, del Manchester. Coppa dei campioni nella Piana del Sale. 

Negozio di Ahmed Ela
 Si rimane, quindi, sbalorditi dai lampi dei calzini azzurri e dal riverbero della fascia rossa. E’ Tintoretto il pittore che ha deciso di affrescare con geometrie verdi e cuori rosa le pareti di un negozio. E’ un carpentiere ribelle, stufo del grigio, un Caravaggio della Dancalia, colui che ha passato mani di pennello sugli intonaci del negozio del fornaio. Le taniche gialle appese ai fianchi degli asini o legate alle spalle delle donne sono lampi viaggianti. Ipnotizzano. Basta, non c’è altro. Sì, le teiere annerite da secoli di fuoco. Le perline attorno alle quali si annodano le trecce delle bambine. Ahmed Ela è priva di colori. Ma ha affinato un suo arcobaleno, un capolavoro di sfumature. In certe giornate, al mare, non si distingue l’orizzonte delle onde dal celeste del cielo, è un gioco di pennellate per chi cerca il confine fra due elementi; anche ad Ahmed Ela cerchi vanamente la linea del distacco fra le capanne e un cielo livido come la latta, cerchi di scoprire dov’è il salto di colore fra uomini e sassi, fra cammelli e arbusti. È astratta, Ahmed Ela. E bellissima. E maledettamente concreta. Terra reale. 

Ahmed Ela, 21 settembre  


giovedì 29 settembre 2011

Etiopia/Il raglio di un asino ad Ahmed Ela

I rumori raccontano Ahmed Ela, il villaggio dei cavatori della Piana del Sale.

Awa intreccia le foglie di palma per farne stuoie

Raglio di un asino nella notte. Raglio disperato. Prolungato. Senza una apparente ragione. Lamento strappacuore per una disperazione improvvisa. Sobbalzo nel letto. L’animale a bocca aperta protende il collo verso il vuoto. E' l'unico rumore che ora ricordo di Ahmed Ela.
Gli afar camminano senza far rumore. Non ci sono galli ad Ahmed Ela. Qualche cane circola a coda bassa e occhi sconsolati. Bramiti dei cammelli. Si richiamano. Gridano la loro stanchezza. Qualche risata da una capanna. Chiacchiericcio di uomini. Rumori impercettibili. Concerto silenzioso. Gli uomini affilano la piccozza con la quale intagliano le lastre di sale. Si strofina con forza la lama del godmà su una pietra, si riduce l’attrito versando acqua. Strofinio inudibile. Ma se fate attenzione è come se un’orchestra stesse accordano gli strumenti. Ascoltate il fruscio delle mani. Le donne, instancabili, intrecciano le foglie delle palme dum. Fanno stuoie. Non ho mai visto le mani di Medina e di sua figlia Aisha rimanere ferme. Stanno nella capanna e lavorano. Camminano e si portano sulla schiena la treccia delle foglie. Preparano il caffè e la stuoia cresce sotto le loro dita. Le mani hanno gesti automatici ed eterni. L’intreccìo delle donne è un controcanto alle lame degli uomini che slittano sulle pietre lisciate da decenni di un movimento incessante. Come vorrei riconoscere le note che stanno volando nell’aria.

Ahmed affila la lama della sua piccozza


Non ci sono veri rumori ad Ahmed Ela. Fino a quando il sole non tramonta oltre la cordigliera dell’altopiano. E’ il segnale. Mahammuda, allora, tira una corda e il generatore ha il rombo di un aereo. Per due ore la pace di Ahmed Ela è infranta dal rimbombo di un motore fuori giri. Se vedeste gli occhi stupiti dei cavatori davanti alla televisione, sareste disponibili a perdonare questo ruggito meccanico. Facciamo andare anche noi il nostro generatore. E’ come se avessimo dato il via a un concerto tecnho in un monastero benedettino. Due ore di fracasso e poi torna il silenzio assoluto. Fino al raglio dell’asino.
Ahmed Ela, 20 settembre

mercoledì 28 settembre 2011

Etiopia/Ahmed Ela, il pozzo di Ahmed

Le novità fra i geycers di Dallol

Ritorno in Dancalia. Nella stagione 'sbagliata'. Il caldo brucia l'aria. 48 gradi al sole, segna il mio termometro. Un vento da forno arroventa l'aria. Non puoi toccarti la pelle. Perchè scotta la mano. Non c'è nessuno ad Ahmed Ela, il villaggio dei cavatori del sale e delle carovane. Nemmeno un cammello. Nemmeno un cavatore. Solo i militari. i minatori delle compagnie canadesi e indiane in cerca del potassio e una settantina di afar. 'Le compagnie non aiutano il villaggio', mi dici Abdallah. Hanno assunto quaranta persone e poi sono indifferenti alla nostra sorte. I frigoriferi dei militari non funzionano. La Allana Potash, la multinazionale canadese, ogni giorno consuma tutta la Coca-Cola. Al bar dei militari si guarda Harry Potter. Un soldato apre una birra calda con i denti. Hanno montato un'altissima antenna per telefonia mobile. Alla periferia della Dancalia. Mi piace essere in questa strana solitudine.
Vi racconto cos'è Ahmed Ela

Ahmed Ela a settembre


Le capanne di Ahmed Ela si confondono con i sassi grigi, con il sipario delle montagne, con le ombre del pomeriggio. E’ invisibile questo villaggio. Sembra sorgere dalle pietre. Ne ha lo stesso colore. Un non-colore. Grigio su grigio. Nebbia su nebbia. Le capanne di Ahmed Ela sono costruite con legni recuperati dal letto dei wadi. Sono coni scomposti e perfetti. E’ un irriconosciuto capolavoro di land-art, questo villaggio. Cercate un ecovillaggio senza compromessi? Eccolo, è qui, la vostra ricerca è finita, ci state arrivando. E’ stato tirato su con i materiali che generazioni di uomini del sale hanno trovato nella polvere, nella sabbia, nella lava. Le donne hanno intrecciato le stuoie delle burra. I bambini hanno selezionato i legni più dritti fra i rami contorti delle acacie e li hanno trasportati sulle spalle fino alla loro futura casa. Non c’è un solo albero attorno ad Ahmed Ela. Nemmeno uno stentato filo d’erba. Non si può coltivare niente di niente. Questo luogo è oltre l’aridità. Ma gli afar hanno spostato massi su massi. Hanno perfino tracciato una parvenza di urbanistica. Nel loro vagabondare, hanno trovato corde, stracci, plastiche, lamiere. I wadi, dall’altopiano,hanno trascinato nella depressione detriti, rifiuti, rottami. Sono eccellenti materiali da costruzione. E, così, come un improvviso cespuglio di piante del deserto, è nato Ahmed Ela. Forse più che invisibile, questo è un luogo mimetico: nemmeno i satelliti di GoogleEarth riescono a scovarlo negli spazi vuoti fra gli ultimi canyon dell’altopiano e la Piana del Sale. Gli uomini di queste terre sanno di essere parte della natura e, allora, si camuffano da arbusto, da pietra, da sasso. 
Ha cambiato spesso geografia, questo villaggio. Ha subito la forza della natura e la violenza degli uomini. E’ stato sempre un impossibile rifugio, Ahmed Ela. Nesbitt, esploratore italiano degli anni '20 del secolo scorso, qui, non trovò che pochi, provvisori ripari e nessuno osò dirgli che avevano un nome. Ahmed era sicuramente nomade e il suo villaggio (Ahmed Ela, il pozzo di Ahmed) non poteva che essere mobile. Ma, forse, ora è cresciuto troppo per un nuovo trasferimento: Ahmed, dagli anni ’80, anni terribili in queste terre, è diventato sedentario e qui si trova bene. Questo è il suo pozzo. Un pozzo generoso. La sua acqua è perenne, non conosce disseccamenti. Merito del Saba river.  Ahmed Ela è nato sulla sponda di una conca dove le acque di questo fiume carsico si raccolgono in un grande deposito sotterraneo. Assurdo per assurdo, questo è un paese rivierasco.

Ahmed Ela, 19 settembre

lunedì 26 settembre 2011

Etiopia/Il piccolo miracolo di Gheralta

Il Gheralta Lodge


L'amba Gheralta

Cambia la geografia a Gheralta, la montagna dell’orizzonte di Hawzien, paese del Tigray. Il vecchio contadino mi porta la scala per salire sul tetto della sua antica casa. Adesso ne sono state ricavate due camere per gli ospiti del Gheralta Lodge. Quest’anno l’erba è stata abbondante. Un buon raccolto di fieno. I covoni vengono sistemati sui tetti. C’è una bella pace a Gheralta. Il gruppo di vacche, i vitelli, il cavallo (che finalmente ha una compagna), le pecore e l’asino pascolano nella radura dei Grandi Alberi. Mebretu, il contadino, ricorda i tempi in cui lui abitava questo roccione. Ora lavora per il lodge, ha una nuova casa poco distante e coltiva ancora i suoi campi. Sette anni fa, Mebretu ospitò vicino alla sua casa, Silvio e Biniam. Si accamparono su questo pianoro e decisero che questo era il luogo ideale per costruirvi una terra di ospitalità. E’ nato così il Lodge Gheralta.

Tewolde, il nipote di Mebretu, uno spilungone dal bel sorriso, ha superato il più difficile esame della scuola etiopica. Al decimo anno di studi iniziali, si viene fermati. Un esame brusco, impietoso. Ad Hawzien solo 192 ragazzi su duemila hanno guadagnato l’accesso alle classi superiori. E’ un problema della nuova società etiopica: che destino attende quei mille e ottocento ragazzi che non studieranno? Non vogliono fare i contadini. Tewolde continua a studiare, guadagna qualche soldo facendo la guida per i turisti del lodge.

Scendo dal tetto. Vado all’orto. Adesso è Ghebrehiwot a mostrarmi la sua maestria da contadino. Sta raccogliendo i semi della rucola. Mostra i grandi limoni, i sedani, i peperoni, le cipolle. Vedrò Ghebrehiwot danzare alla festa del lodge: sembrava un uccello in amore.
Una ragazza va al pozzo e ne aziona la leva a bilanciere. Un operaio intreccia canne. Come falchi gentili, gli zabagna, i guardiani, aspettano che i turisti sistemino le valige fuori dalla porta per trasportarle verso le macchine. Una attenzione. Una piccola mancia. 

La festa del Gheralta Lodge

La festa del Gheralta Lodge

La festa del Gheralta Lodge


Il Gheralta Lodge ha cambiato la piccola economia di Hawzien. Vi lavorano quaranta persone, trentacinque sono del villaggio. Hanno buoni salari. Si sono formati artigiani grazie al lodge: un falegname prepara i legni necessari per costruire le sedie, il sarto musulmano (che è anche guardiano) cuce le stoffe delle sedie, il fabbro prepara le aste di ferro. Rivoli di lavoro. Hawzien è cambiata con la costruzione e l’attività del lodge. Il costruttore Elmi si è lasciato alle spalle una rete di uomini che hanno imparato il mestiere e possono fare le manutenzioni durante la stagione delle piogge. Vengono fatti acquisti settimanali per decine di migliaia di birr. Nell’orto non si coltivano i pomodori: è ottima la produzione locale. Integrazione di economie. Il Gheralta Lodge è un piccolo miracolo di un’impresa di turismo. Ha messo in movimento un’economia virtuosa in un luogo un tempo remoto e difficile da raggiungere. Quindici anni fa, nella guida che scrissi attorno all’Etiopia, dedicai un paragrafo a questa terra. Dicevo: ‘Non dimenticare Hawzien’. A volte i piccoli miracoli accadono sul serio.

Il pranzo dei preti durante la festa al Gheralta Lodge

Uno dei preti alla festa del Gheralta Lodge

Durante la festa al Gherlta Lodge

Cambia Hawzien: quando è stata ultimata la torre della telefonia mobile, vi sono state mille e cento richieste di attivazione di numeri. Poco meno di un terzo delle famiglie del paese. I preti, ostinati, continuano a proibire i pantaloni alle donne. Le cameriere del lodge sono divise fra l’ossequio alla tradizione e la modernità. Chi ha parenti nella chiesa non può trasgredire, ma le altre arrivano in jeans e scialle bianco. Per la festa del lodge, una settimana prima di Meskal, la festa della Croce, hanno indossato abiti bianchi. E, con la serietà delle ragazze dell’altopiano, hanno ballato a piccoli passi e movimenti febbrili di spalle.

Il sole sta sorgendo. L’amba Gheralta, orizzonte del lodge, si illumina e risplende. Noi stiamo partendo.
Gheralta, 19 settembre

domenica 25 settembre 2011

Etiopia/Il vecchio compagno di Maometto

Il mausoleo di Negash

Mohammed Omar davanti alla tomba di Negash


Ho fatto la domanda stupida. ‘Non ci piace dividerci fra musulmani e cristiani. Siamo qui, viviamo nello stesso paese’. Le parole dello sceicco Mohammed Omar sono un sussurro gentile, ma tagliente. Vorrei rimangiarmi la mia domanda fuori luogo. Negash è un bel posto. Ai confini orientali dell'altopiano etiopico. Terra del Tigray, isola musulmana in una terra di cristiani. I turisti trovano ben poco interessante fermarsi in questo villaggio tigrino lungo la strada fra Makallè e Adigrat. Perché non hanno occhi per guardare una splendente cupola verde. E’ il mausoleo che protegge la tomba di Negash, uno dei più fedeli compagni di Maometto, e dei suoi quindici amici. Negash, ai tempi delle predicazioni del Profeta, perseguitato nella penisola arabica, trovò rifugio dai suoi nemici nel regno dei Negus. Venne ben accolto, fu libero di professare la sua fede. ‘Chi entra in questa terra con benevolenza è protetto dalle nostre leggi’, dichiarò il Negus d’Etiopia. Il re dei re respinse l’oro di chi voleva la morta di Negash. Nacque, su questo altopiano, il diritto di asilo. Un re cristiano ospitò un musulmano in fuga. E io, mille e quattrocento anni dopo, non trovo di meglio che chiedere a un vecchio con la barba dipinta di hennè se in questo villaggio vi sono più cristiani o più musulmani. Alla fine mi risponde: ‘Sono più i cristiani’, ma ripete: ‘Noi ci consideriamo uomini e donne sulla stessa Terra’.
Rimango solo con Rush, il mio autista, nella moschea. Rush prega. Io faccio due passi indietro e rimango in piedi al centro della sala delle preghiere.
Negasi, 17 settembre

sabato 24 settembre 2011

Etiopia/I pellegrini di Medhane Alem




La chiesa di Medhane Alem Adi Kasho

I pellegrini di Medhane Alem


Tutta la famiglia è salita al pianoro di Medhane Alem. Si sono sistemati nella casupola rotonda proprio fuori l’antica chiesa rupestre. E ogni giorno scendono nella valle a raccogliere l’acqua santa che sgorga da una roccia. Acqua rossastra, rugginosa. Ma aiuta il cuore e la salute. Berhan, ‘Luce’, giovane moglie di Hagos, sta male. Non riesce ad avere figli. E’ già passato un anno dal loro matrimonio. E allora la coppia è venuta fin quassù e tutta la famiglia, dai più vecchi ai neonati, non li hanno abbandonati. Sono venuti fino sulla montagna con le loro bisacce. Preparano il cibo per i bambini, impastano ‘njera per i vecchi, pestano il caffè. E stanno lì. Aspettano. Un bosco di ginepri li protegge, il giovane prete prega con loro.

Ci offrono il caffè. Braci di legna di ginepro. Vecchi materassi consunti e coperte lacere sono stesi sull’erba umida per togliere l'odore acido del sudore della notte. Berhan si sorregge la testa, ma sorride. E una giovane ragazza ci prega di scattare una fotografia a tutta la famiglia.

La promessa impossibile di una foto da riportare. Arriva una bambina con l’acqua.
Medhane Alem Adi Kasho, 17 settembre

venerdì 23 settembre 2011

Etiopia/L'alba di Axum


Il folle di Dio

Il folle di Dio ha una corona di erba, una gamba marcita e un prurito mangiacarne al braccio destro. Cammina, si siede sulla pietra del trono di Axum. Grida in inglese. ‘Satelite, civilization’. Era un maestro, impazzito con l’alcol. ‘Beveva’, dicono i ragazzi. Ora vive nell’aerea della chiesa. Le donne lo sfiorano. Un uomo mi dice di dargli del denaro. Un birr, due centesimo di euro. Il folle sorride con un bel sorriso.
L'alba a Maryam Sion


All’alba le donne avvolte nelle loro vesti bianche camminano verso la chiesa. Al riparo di un albero, dritto sui troni dei giudici, il vecchio prete legge con voce raschiata la Bibbia. Amen e dondolii. Le donne oscillano, pregano, si sciolgono nella fede. Si portano chicchi di teff e ‘njera vecchia per gli uccelli. Viene lasciata sulle pietre antiche di duemila anni e gli uccelli volano felici. Le donne baciano la pietra e pregano. Per la fertilità. Per la salute. Per il senso di indefinito nell’alba di Axum.
I mendicanti, gli storpi, i ciechi, l’uomo attorcigliato da una poliomielite sulle spalle di un ragazzo, l’uomo dai moncherini è insistente, il ragazzo cieco e bello questa volta si è fatto accompagnare da una bambina. E’ diverso, lui. E’ elegante. Vorrei conoscere la sua storia. Non ho il coraggio di chiederla. Le donne si frugano nelle vesti e trovano monetine di birr. Nemmeno la ‘njiera compri con questo denaro.
L'attesa delle donne


Altre donne portano pietre sulle spalle. Le depositano in un mucchio. Ci sono altre chiese da costruire. Questo è il loro contributo,. Un prete vestito di nero osserva i movimento delle donne.
Il sole appare dietro la collina di pietra. Il folle di Dio allarga la bocca, la giornata può cominciare. Il tempo di Dio sta per finire. Le donne escono dai cancelli della chiesa. La giornata sarà faticosa. In attesa di un’altra alba da dedicare alla pace di Dio. Etiopia immota. Etiopia testarda.
Axum, 16 settembre

giovedì 22 settembre 2011

Etiopia/Il monaco di abba Liqanos


Il monaco Toumay, custode di abba Liqanos ad Axum
Figlio di contadini, il monaco Toumay, ‘il dolce, il gentile’. Ha 29 anni e indossa lo shamma giallo dei ‘monaci vergini’. Custode della chiesa di abba Liqanos, uno dei nove evangelizzatori dell’Etiopia cristiana. 
La chiesa sorge sulla vetta di una montagna alla spalle di Axum. Toumay protegge una fonte di acque sacre. I fedeli salgono ad abba Liqanos per prendere, goccia dopo goccia, l’acqua che il santo fece sgorgare dalla pietra mille e seicento anni fa. 

‘Bisogna avere anima pulita perché l’acqua risolva i tuoi problemi’, dice Toumay.

E’ cresciuto in un monastero di eremiti, Toumay. Capita così nelle campagne. Non tutti i figli possono essere sfamati e allora si affidano a una comunità monastica. Toumay non ha conosciuto altro mondo. E’ nato in un paese che si chiama ‘qui c’è acqua per le vacche’. 

Ha un sorriso contagioso, Toumay. Voleva fare il monaco a Debre Libanos, uno dei monasteri più importanti dell’Etiopia. Ma l’abuna di Axum ha voluto altrimenti e lo ha destinato a queste piccola chiesa di montagna. ‘E’ stato il santo a volermi qui – dice Toumay – Il destino degli uomini è nelle mani di Dio’.
Non possiamo entrare in chiesa. Rischiamo di fare danni all’acqua sacra. Toumay ci avverte: abbiate davvero animo puro, altrimenti sulla via del ritorno potreste essere assaliti da un leopardo e da un pitone avvinghiati uno all’altro. 


Una strada di Axum


Axum è il centro della cristianità etiopica. Qui tutto è cominciato. Qui è stata costruita la prima chiesa cristiana a Sud del Sahara. Qui è conservata l’Arca dell’Alleanza, lo scrigno dove furono custodite le Tavole della Legge di Dio.
C’è una piccola comunità musulmana. Vicino ai vicoli dei sarti. La gente di Axum non ha voluto che fosse costruita una moschea.

I fiori del meskar ad Axum


Il Tigray è uno spettacolo. E’ fine estate, fine della stagione delle piogge. Io ho sempre visto il Tigray arido, in un'attesa che mi appariva vana delle nuvole. Ho sempre ricordato il Tigray come una terra di pietre e campi arati dalle zolle durissime. In queste settimane è uno sfolgorio di verde smeraldo. Splendono i fiori gialli del Meskal. Una meraviglia. Le spighe invisibili del teff, cereale dell’altopiano, ondeggiano al vento.
Axum, 15 settembre

Etiopia/I sogni di Azmera


Azemera

I nomi etiopici sono beneaugurati. A volte sono nomi complessi. E bellissimi. Azmera, a esempio. Vuole dire che il lavoro dei contadini è stato ben fatto. Che i semi hanno fatto nascere germogli. Che i raccolti saranno buoni. Come tradurre in italiano Azmera?
Ha venti anni, Azmera. Vive nel quartiere delle stele ad Axum. Assieme alle sue compagne, quattordici ragazze fra i venti e i venticinque anni, è riuscita a convincere le autorità pubbliche a concedergli una stanza dentro il Parco delle Stele. Era la vecchia cucina della palazzina di ras Managasha. Hanno disteso erbe sul pavimento, acceso piccoli bracieri di incenso e arrostito il caffè. Offrono la cerimonia del caffè e la loro gentilezza. Le ragazze volevano conquistare autonomie, una piccola libertà, un desiderio di indipendenza. Tre di loro hanno figli, i loro uomini, in qualche caso, sono scomparsi. Una donna è venuta fin qua, dalla lontana Addis Abeba, pur di cercare una possibilità.
Arriva la pioggia e il rifugio di Azmera, ci è prezioso.

La cerimonia del caffè nella cucina della casa di ras Managasha


Ha dovuto rinunciare ai suoi sogni, questa ragazza. Non ha ottenuto il punteggio necessario per entrare a ingegneria. La sua famiglia non può pagare studi. In Africa, i ragazzi vogliono essere ingegneri o medici. I più devono arrendersi. Azmera culla le sue illusioni. Spera, con il caffè per i turisti e il gruppo delle ragazze che non vuole rimanere a casa, di guadagnare i soldi necessari per continuare gli studi.
Il suo caffè è buono, i pop-corn sono squisiti. Passiamo il tempo della pioggia e delle chiacchiere con lei.
Poi, come sempre, il passare delle ore ci fa andare via. E' stato un momento di serenità.
Mano destra sostenuta dalla sinistra. Sfiorarsi le mani. Un salutarsi che è un addio. Un augurio per i tuoi sogni, Azmera. 
Axum, 14 settembre



martedì 13 settembre 2011


Strana sensazione. I palazzi in costruzione, i grattacieli che stanno crescendo come piante rampicanti, i nuovi alberghi, i nuovi uffici, la nuova sede dell’Unione Africana (ci sventola una bandiera cinese sopra), sono come immensi insetti immobili.

La nuova Addis

La nuova Addis




La nuova Addis

Oggi, giorno di Addis Abeba, primo giorno in Etiopia, nessun manovale sembrava al lavoro, nessun operaio era in bilico su ponteggi costruiti con legni di eucalipto. E’ come se la frenesia immobiliarista di Addis Abeba stesse conoscendo una pausa. No, non è così, non si ferma: ma oggi era come se l’assalto al cielo si fosse fermato lasciando tutto a mezzo. Mi dicono che un braccio di ferro divide ancora la chiesa ortodossa dalla potenza di Alì Mudi, l’uomo più ricco del paese per terreni a Piazza. Cortine di lamiera impediscono di vedere gli squarci che si sono aperti nella vecchia Addis Abeba. Raccontano che la nuova, grande diga sul Nilo (la più grande dell’Africa, appalto della ditta Salini) ha consumato fino all’ultima riserva di cemento dell’Etiopia. Per questo i grattacieli di Addis Abeba rimangono scheletri e torrioni non finiti. Ma la sky-line della città è impressionante: la capitale dell’Etiopia ha cambiato volto. Fatico a ritrovare le mie strade acciottolate.

Il Finfin Aderas

Il caffè Parisienne

Ma io, conservatore, sono testardo: la prima giornata di viaggio è un rito, atterraggio al primo mattino, succo di frutta al bar Parisienne, locale con tratti snob sulla Bole. Giro per i luoghi di un impero scomparso. Pranzo al FinFin Aderasc, luogo dove la città nata meno di un secolo e mezzo fa per i desideri di un regina. Cena al club armeno. Alt: l’ultimo cambiamento. Il club armeno ha chiuso. Chiuso per ristrutturazione. E io che ero legato alla cortesia dell’ultimo cameriera in giacca bianca e in un menù immutabile. La mutazione della mia Addis Abeba è in questo luogo che, quando e se riaprirà, sarà ‘diverso’. Non so se mai vi tornerò. Gioco di nostalgia. Quanti armeni sono rimasti ad Addis Abeba?
Addis Abeba, 13 settembre

Talismani


Luca vive in Malawi. E adora Kapuscinski. Prende, con una certa regolarità, il volo fra Roma e Addis Abeba per poi raggiungere Lilongwe.
Lo ha fatto anche ieri notte.
Si è seduto accanto a me. E ha messo sul tavolino un piccolo libro dalla copertina color carta da zucchero. Lo guardo e non so che espressione si sia dipinta sul mio viso.
Faccio una domanda stupida: ‘Posso chiederti perché hai questo libro?’
‘Mi piace Kapuscinki. E’ il solo scrittore bianco che ha saputo raccontare l’Africa. E’ stato un regalo di una mia amica’.
Rimango come sospeso. ‘Ecco, l’ho scritto io questo libro’.
Adesso la sorpresa è doppia. Ci diamo la mano e rimaniamo in silenzio.
Nel volo notturno, Luca legge le mie pagine.
Addis Abeba, 13 settembre

lunedì 12 settembre 2011

Verso Addis Abeba

Il quartiere di Arat Kilo
Fra poche ore ancora un volo. Notturno. Sopra il Mediterraneo e il Sahara, terre che si sono insanguinate. Terre meravigliose.
Un ritorno. Ancora un ritorno. La vecchia Etiopia. Quanti anni fa la prima volta? Ricordo la sua immensità che ora mi è diventata familiare. Ricordo la sua aria decrepita e superba. I vecchi palazzi. La vastità delle piazza e delle grandi strade. Ricordo l'apprensione. Ora che avverto questo ritorno come un andare in una delle case-non cosa. Penso alle speranze e alle delusioni di questi anni.

Acquisti fra le rovine di Arat Kilo

Il volto di Addis Abeba travolto dal vetro-cemento. Dormirò in un albergo là dove c'erano le vecchie case italiane. Kazanchis. Case Incis. Niente è rimasto in piedi.
La mia Addis Abeba si nasconde in vicoli ancora acciotolati. Oramai circondati dalle ruspe della modernità. Si distruggono e si smantellano le antiche case sono Arat Kilo. La gente lascia le case per le periferie. Vende i mattoni, le finestre, le porte, i vetri in un mercato improvvisato. Sulle strade che hanno visto la loro storia. Mi viene in mente Kapuscinski che assiste alla distruzione della vecchie case di Erevan. La gente sta lì e piange. Io sto qui, fra le rovine di una città che sarà ricostruita in nome della modernità. Sto qui e non ho pensieri. Guardo la gente comprare le rovine.

Domani sera, insh'allah, troverò il mio cameriere nella sua giacca bianca. Sa che ordinerò polpettine allo yogurt....
San Casciano in Val di Pesa, 12 settembre

Gli sconfitti in Libia

Il mercato attorno alla Medina di Tripoli. Un anno fa



Nessuno saprà mai quanti uomini e quante donne hanno perduto la vita nella guerra civile in Libia. Vittime civili di un conflitto che avrebbe dovuto essere disinnescato.

In questa guerra, in Occidente, soprattutto in un paese come l’Italia, hanno perso i pacifisti. Incapaci perfino di balbettare, di prendere posizione, di sostenere idee. Silenziosi e lacerati. Insostenibile schierarsi in difesa di Muammar Gheddafi, responsabile dei campi di prigionia per i migranti africani. Insostenibile schierarsi con le bombe della Nato. Il pacifismo italiano è stato incapace di dire alcunché quando l’esercito di Gheddafi stava per entrare a Bengasi, a marzo, minacciando sanguinose vendette. Ed è stato incapace di organizzare qualsiasi cosa per dire almeno che Tripoli, Beni Walid, Sirte e Sebha avevano diritto, come Misurata, a essere considerate città assediate, con una popolazione civile. Davvero, la Marcia Perugia-Assisi, a fine settembre, diventa rituale e imbarazzante.

Ha perso l’Africa. Gheddafi non è mai stato amato dai leader africani. Ma è stato, fra il 2009 e il 2010, presidente dell’Unione Africana. Tentò un secondo mandato e venne rifiutato con giubilo sotterraneo dei governi africani. I giornali di Addis Abeba, in quei giorni, fecero titoli trionfanti sulla ‘liberazione’ da Gheddafi. Il rais costringeva i capi di stato africani a spossanti riunioni a Sirte. Ma era anche il principale finanziatore dell’Ua: copriva almeno il 15% delle sue spese. Sorreggeva paesi come il Mali o il Burkina-Faso. Lo stesso Mandela è sempre stato grato a Gheddafi per il sostegno alla resistenza dei neri sudafricani negli anni dell’Apartheid. L’Ua era figlia della testardaggini e della demagogia di Gheddafi. Ma i neri non sono mai stati amati in Libia. Maltrattati, ingaggiati per i lavori più umili e pesanti, espulsi a ondate, offesi, uccisi, imprigionati, taglieggiati. Ieri come oggi.
L’Unione Africa non ha saputo prendere alcuna posizione sul conflitto libico. Le sue mediazioni sono state impotenti e risibili. Nessuno ne ha tenuto conto. La sconfitta politica dell’Ua è enorme. L’Africa non riesce a dire niente su una guerra che si svolge sul suo territorio. E, tutt’oggi, ad Addis Abeba si oscilla fra il riconoscimento del Consiglio di Transizione e ‘una antipatia’ di pancia verso ogni cambiamento di regime. Temono per la loro sorte, i governanti africani.

E ora saranno anche i giorni delle vendette. Contro i migranti africani in Libia. Perseguitati per il colore della loro pelle. Fuggiti a centinaia di migliaia. Coloro che non sono riusciti a scappare sono prigionieri in un paese ostile. Ma che, ben presto, ci si renderà conto di non poter fare a meno del lavoro di questa moltitudine di uomini e donne.
I tuareg del Sud saranno le altre vittime dei rancori di questa guerra. A torto o a ragione sono considerati alleati di Gheddafi. In realtà i tuareg pensano a loro stessi. Indubbiamente molti di loro erano e sono militari dello sgangherato esercito di Gheddafi. Furono richiamati fin dal febbraio scorso. Gli arabi del Nord non li hanno mai considerati libici. E hanno anche ragione: molti tuareg del Sud sono migranti delle guerre nei loro paesi, sono maliani e nigerini, ma da decenni vivono nel Sud della Libia. Non hanno documenti, ma singolari permessi di soggiorni che non consentono di tornare nei dimenticati paesi di origine. Molti hanno la pelle scura. Sono pochi: circa ventimila in Libia. I ribelli ancora non controllano Sebha e le oasi del Grande Sud, terra delle famiglie tuareg, ma la caccia è già cominciata. I tuareg non sono civili?

Ha perso il Sahara. Gli arsenali di Gheddafi sono stati svuotati. Armi di ogni genere (dalle mitragliatrici ai missili terra aria) sono scomparsi. Per riapparire nelle oasi nigerine, nei deserti attorno a Kidal in Mali, nei contrafforti dei Tassili algerini. Viaggiano verso la Nigeria o il Centrafrica. Raggiungono il Darfour. Armeranno per anni e anni banditi, contrabbandieri, frammenti di jihad islamica, gente di al-Qaeda, guerriglieri di ogni bandiera.

La guerra civile di Libia è destinata a scomparire dei giornali. Vi riapparirà ogni volta che Gheddafi e i suoi figli dimostreranno di essere ancora vivi. Ma le sue conseguenze su vaste regioni del Nord-africana saranno un’oscenità. E i suoi contraccolpi salperanno dalla sponda Sud del Mediterraneo per raggiungere un’Europa incapace di proporre tentativi di discussione come strumento per risolvere i conflitti.
San Casciano in Val di Pesa, 12 settembre

domenica 11 settembre 2011

11 settembre 1973

Salvador Allende
Già, un altro undicesettembre in cui la storia è cambiata. Quanto meno la storia di un paese, di un popolo, di migliaia e migliaia di ragazzi. La nostra storia.
Quanto tempo. Salvador Allende moriva, alla fine di un inverno australe, nel grigio palazzo della Moneda. Che aveva provato a dipingere di azzurro. Le sue ultime parole furono per il 'diritto' contro chi ha solo 'la forza'.
Assieme a chi ha perso la vita nell'orrore delle Torri Gemelle, ricordiamo di un vecchio medico cileno e dei ragazzi a cui venne cancellato il futuro.
San Casciano in Val di Pesa, 11 settembre

Imagine all the people...

La guerra

Mi trovo a cantare Imagine all the people…con la gente di Emergency. Al MandelaForum di Firenze. Con Fiorella Mannoia, Paola Turci ed Elisa sul palco. Bello.
Penso che non ci sono più gli accendini, oggi si sollevano i display di cellulari. La platea insegue la musica con flash di telefonini-macchine fotografiche.
Serata contro la guerra. Guerra da bandire dalla storia dell’umanità.

Tutto questo avviene mentre i ribelli della Libia non hanno più pazienze. Aspettano solo le bombe della Nato per entrare a Beni Walid. L’assedio di questa città ‘gheddafiana’ non vale quello di Misurata, città ‘anti-gheddafiana’. E’ un assedio ‘legittimo’. I civili di Beni Walid forse non sono civili. E’ l’ora dell’attacco.
Penso ai ragazzi che alzano i kalhasnikov, sparano al cielo e inneggiano alla guerra.
Penso a quante fotografie ho scattato a ragazzi orgogliosi del loro fucile.
Penso che nelle parole che vengono dette sui palcoscenici di Emergency non c’è un solo dubbio.
Penso che quei ragazzi che sparano sono ‘felici’. La guerra, è bene dirselo, è ‘una festa’. ‘Un terribile amore per la guerra’, dice il filosofo James Hillman. L’umanità, da quanto esiste la scrittura, ricorda il saggista Michele Nardelli, ne ha combattute 15mila e 600. La guerra, almeno fino a quando non ci si fa male, è adrenalina, senso di comunità, brivido assieme, solidarietà combattente, cameratismo. Chi ha vissuto i Balcani lo sa bene. Chi guarda i ribelli e i gheddaffiani esibire i loro fucili con ebbrezza, lo sa bene. Avete mai parlato con un cecchino? Non è un mostro, non è uno scarto, è un uomo con una storia simile alla nostra.

Forse è bene cominciare a dirselo. Forse è bene cominciare a guardare il ‘cattivo’ che è dentro di noi.
Non è possibile negare il conflitto. L’odio e la rabbia esistono. Bisogna trovare luoghi, meccanismi, pratiche, comportamenti, coraggi per affrontare il conflitto. Guardandosi negli occhi e pensare che la ragione non sta mai da una sola parte.
You may say I’m a dreamer.
San Casciano in Val di Pesa, 10 settembre (vigilia dell’11 settembre)

sabato 10 settembre 2011

Parlare attorno a Kapuscinski

 
Annuncio personale. Così. Vigilia di un'altra partenza. Ma c'è tempo per parlare di Kapuscinski. Dialoghi sul partire. Domani sera, 11 settembre. Giorno delle Torri Gemelle, ma ricordare anche Salvador Allende. Assieme a Simone Siliani. Alla festa di Sinistra Ecologia e Libertà, al Teatro Sashall. Ore 19. Spazio libreria. Per chi è a Firenze.
San Casciano in Val di Pesa, 10 settembre

lunedì 5 settembre 2011

Continuate in ciò che era giusto



All’incontro annuale a San Zeno, in Val di Non, giorni ricchi di pensieri e saperi, si è parlato di Alex Langer. Ne ha raccontato Marco Boato ha raccontato ed è stato come se, in un incontro di famiglia, qualcuno parlasse del fratello che non c’è più ricordando la pienezza della sua vita. Ci manca, Alex. E il racconto di Marco Boato è stato prezioso: nella sala una signora ha confessato, con candore, di non aver mai conosciuto ‘questo signore’ e che ora avrebbe fatto di tutto per conoscerlo. Sono passati sedici anni dalla sua morte.
Marco ha rivelato qualcosa che ignoravo. Alex aveva scritto l’ultimo biglietto in tedesco e lo aveva lasciato sul cruscotto della sua 127. E’ stata una interprete dell’ufficio stranieri della Questura di Firenze a tradurre quella frase finale in ‘Continuate in ciò che era giusto’. In realtà Alex aveva scritto ‘buono’. Ma credo che mai una traduzione sia stata così fedele. A questa interprete non arriveranno mai i miei ringraziamenti, ma davvero ci ha donato le parole per ‘continuare’ in ciò che è giusto.
Sella, 5 settembre

domenica 4 settembre 2011

Metamorfosi a Tripoli

Hotel Corinthya a Tripoli
Abdel al-Hakim Belhaj sembra trovarsi a suo agio, con la sua mimetica sbiadita dall'uso, di fronte alla stampa internazionale. Ha parole ben soppesate per chiunque chieda un incontro con lui. Ben si capisce: oggi è il volto 'nuovo' di Tripoli. Ha ragione Bernardo Valli, inviato di Repubblica nella capitale libica: le metamorfosi teologiche, militari, politiche di questo islamista quarantacinquenne sono ‘da capogiro’. Nato a Derna, in Cirenaica, nel 1966, riappare, poco più che ventenne, sulle montagne dell’Afghanistan ai tempi della resistenza Jihadista contro l’invasione sovietica. Ha imparato molto negli inverni afghani. E’ stato fra i fondatori del Lifg, emiro del Libyan Islamic Fighting Group e alleato di al-Qaeda e dei Talibani almeno fino al 2000 (un anno prima dell’attacco alle Torri Gemelle). Almeno a leggere le sue interviste.

Agli americani non importò poi molto che avesse rotto l'alleanza con Bin Laden. La Cia continuò a dargli la caccia. Lo sorprese e lo arrestò in Thailandia (o in Malesia?) nel 2004. Lo imprigionò a Bangkok (o a Hong-Kong? I giornali, nella fretta e smarriti nel web, raccontano diverse versioni) e poi, perfidamente, lo consegnò a Gheddafi. Che se ne liberasse lui, per Washington era solo ingombrante.
Al-Hakim Belhaj, incarcerato nella prigione di Abu Salim, sopravvive a quattro anni di prigione libica. Viene liberato, nel 2008, su pressione di Saif al-Islam, il figlio secondogenito di Gheddafi, che cercava un’intesa con i gruppi dell’islamismo radicale e forse, più di altri, avvertiva le crepe che stavano aprendosi sotto il regime del padre. I due uomini, in questi mesi, si sono ritrovati su sponde opposte delle barricata.

L'esperienza guerrieradi Belhaj (e la fedeltà dei suoi uomini, un migliaio di combattenti, a quanto si racconta) diventa preziosa per gli insorti di Bengasi. E’ un capo militare riconosciuto. Guida la sua brigata in numerose battaglie della guerra civile libica. Il 22 agosto sono i suoi uomini a raggiungere per primi la Piazza Verde, cuore di Tripoli, luogo simbolico del potere libico, e, il giorno dopo, a espugnare Bab al Aziziya, la caserma di Gheddafi. Oggi è il comandante militare di Tripoli e, a leggere le sue parole in una intervista all'agenzia iraniana Fars, ritiene che la guerra in Libia sia una 'rivoluzione islamica'.
Piroetta non da poco: da ricercato e prigioniero della Cia a combattente con la protezione degli aerei della Nato. Gheddafi ha fatto un percorso inverso (tutta la sua vita è stata una cinica metamorfosi): ora saltano fuori documenti, sempre a leggere i giornali, che dimostrano accordi inconfessabili con la Cia e con l'M16 britannico. Salvo tornare a essere il nemico pubblico numero Uno.
Sella, 4 settembre

sabato 3 settembre 2011

Coincidenze in Libia/2

Nel Sud della Libia


Devono essere sotto pressione gli uomini degli affari in Libia. Se personaggi in passato più riservati e prudenti, come Antonio De Capoa, potente avvocato bolognese, studi legali in mezzo mondo, presidente della Camera di Commercio italo-libica, sgomitano per rilasciare interviste (dodici in una settimana) rassicuranti per i nuovi padroni di Tripoli.
Certo, l’avvocato De Capoa (la gente del suo studio sono fra i migliori – cari e altezzosi – esperti di paesi di frontiera) non ha il dono della fantasia nel suo vocabolario. All’indomani del Trattato di Amicizia fra Italia e Libia, firmato da Silvio Berlusconi a Bengasi alla fine di agosto del 2008, anni di Gheddafi, non esitò a dichiarare che ‘La Libia è una straordinaria occasione per concludere affari’.
Oggi, al Sole 24 Ore e a chiunque glielo chieda, spiega che ‘La Libia è una grande opportunità per le imprese italiane’.

Ps: il sito della Camera di Commercio italo-libica, ancor oggi, avverte che le sue attività, ‘in particolare quelle che si dovrebbero svolgere in Libia’, sono ‘momentaneamente’ sospese. Avviso che apparve lo scorso febbraio, ovviamente. Anche se sul sito è rimasto l’invito a partecipare alla Fiera Internazionale dell’Agricoltura e della Pesca nello scorso marzo. Nemmeno una parola sulle ragioni della interruzione dei servizi della Camera di Commercio.

Ps2: La Libia è un palcoscenico formidabile per i Gattopardi
Sella in Valsugana, 3 settembre


venerdì 2 settembre 2011

Coincidenze in Libia


L'Eni in Libia (Blogosfere. Petrolio, uno sguardo da picco)


Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni, ha rivelato, giorni fa, che il 3 aprile, con l’appoggio della Marina e dei Servizi segreti italiani, atterrò a Bengasi per incontrare, primo fra gli uomini del petrolio occidentale, tutti i membri del Consiglio di Nazionale di Transizione degli insorti libici.
Coincidenza: ieri il giornale Liberation pubblica una lettera in cui lo stesso Cnt, nella stessa data, 3 aprile, comunica al fido alleato Qatar che concederà alla Francia, in cambio del suo appoggio ‘totale e permanente’ il 35% dei contratti petroliferi della Nuova Libia.
Sella di Valsugana, 2 settembre

giovedì 1 settembre 2011

Libia/Non raccontate questa guerra ai vostri nipotini

Il vecchio fonduq az-Zahar nella Città Vecchia di Tripoli

Muammar Gheddafi non festeggerà, il primo settembre, il 42esimo anniversario della sua rivoluzione. Oramai è un animale braccato. Silvio Berlusconi non ha festeggiato, il 30 agosto, il terzo anniversario del Patto di Amicizia con la Libia del Colonnello. Non potrà nemmeno ricordare il carosello dei cavalli berberi lo scorso anno, nella stessa data, a Villa Borghese in onore di Gheddafi. Ricorrenze cancellate dal calendario, ricordi da dimenticare e far dimenticare. 

La guerra civile di questi sei mesi di guerra è stata una tragedia. Oramai si parla di 50mila morti. La missione Nato di difesa dei civili è stata un fallimento. Ha avuto successo quella che si augurava la caduta di Gheddafi. Sia ben chiaro: la sua caduta, la fine del suo regime è una buona notizia. Un gran buona notizia.
 
Ma l'unica lezione possibile che si può ricavare dai comportamenti della comunità internazionale è solo il cinismo. Anche l’Occidente è sensibile ai simboli: il Primo Settembre, il presidente francese Nicolas Sarkozy, ha invitato a Parigi una cinquantina di paesi per discutere della Nuova Libia. Non ha scelto la data a caso. A un certo punto la Nato dove scrollarsi di dosso la paura di essere impantanata  nei deserti della Sirte: ha deciso che la guerra doveva finire prima del Primo Settembre, anniversario di Gheddafi.

Primo obiettivo della conferenza di Parigi: scongelare i fondi (quanti sono? Da 110 a 168 miliardi di euro a leggere le diverse versioni dei giornali) delle società e fondi sovrani riconducibili al regime, bloccati sei mesi fa dalle Nazioni Unite. Davvero qualcuno vuol dare a cuor leggero questa montagna di soldi al Consiglio di Transizione di Bengasi?

La sensazione è quella che sia partita una gara di appalto. Senza esclusione di colpi. L’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni, è iperattivo. E’ andato a Bengasi a firmare un’intesa con il governo degli insorti. Vuole ricominciare a produrre petrolio, vuole riaprire il gasdotto Greenstream prima dell’inverno. Ha ragioni da vendere Scaroni. Bp, Total e Shell stanno facendo altrettanto: tutti a mostrarsi nella prima fila, certi di aver messo alle spalle cinesi, russi e brasiliani. Solo che Scaroni strafa e avverte che fin dal 1969, anno del colpo di stato degli ufficiali nazionali contro la monarchia di re Idriss, Gheddafi ‘si è sempre comportato come un criminale’. Come dire: per 42 anni, l’Eni ha fatto affari con un delinquente. ‘Non potevamo fare altrimenti’, confessa Scaroni. Avverto già un leggero alzar di spalle: ‘business is busines’. Chissà cosa insegna Paolo Scaroni ai suoi nipotini? Che tutto è lecito in nome degli affari.

Non è che Bp e Shell siano migliori dell’Eni. Anzi. Sbarcano in Libia solo perché il governo inglese ha gattonato davanti a Gheddafi. Fino a liberare, per ragioni di compassione (un tumore lo condannava), Abdelbaset Alì Mohamed al Megrahi, uno degli autori, per verdetto di una corte scozzese, dell’attentato del 1988 contro un volo Pan Am (270 morti). Dopo la liberazione di al-Megrahi (accolto trionfalmente a Tripoli), la Bp avviò le sue esplorazioni nel golfo della Sirte e un miliardo di dollari, a leggere cronache giornalistiche, venne versato nelle casseforti della FM Capital Partners, un fondo speculativo inglese. E il fondo sovrano libico (‘appartiene al popolo’, dicono tutti) acquistò due prestigiosi edifici nel centro di Londra per 275 milioni di sterline. Con Gheddafi, in nome dei soldi, venivano dimenticati i crimini compiuti dai suoi agenti. A proposito: Gheddafi, dopo un crudele gioco ai rinvii, consegnò al-Megrahi alla giustizia internazionale. I ribelli hanno già fatto sapere che loro non lo avrebbero mai fatto. E che mai consegneranno un cittadino libico alla Corte dell'Aja. 

Mi raccomando, non raccontate il back-stage di questa guerra civile ai vostri nipotini.

San Casciano in Val di Pesa, 31 agosto