giovedì 30 giugno 2011

A Roscigno, Cilento

Roscigno Nuova, la piazza



Da giorni, viaggio al Sud. Napoli, Cilento, Cancellara. Ora Matera. In attesa della Festa della Bruna. Luminarie per la città. Adrenalina che scorre. Fra due giorni verrà assalito il Carro. Attesa. 
Difficile raccontare il Sud. Temo i luoghi comuni.
Ho passato tre giorni a Roscigno, paese degli Alburni. Un’ora e mezza da Salerno. Ma è più Lucania che Campania.

Ecco, i luoghi comuni. Ecco quanto è accaduto a Roscigno.

Roscigno Nuova, la processione del Corpus Domine
Il caffè, innanzitutto. Lo pigliate o’ caffè? Forte. Ristretto. Nessuno conversazione senza un caffè. Rito di accoglienza. Mi piace. Passo le giornate a bere caffè. Con un bicchiere (di plastica) d’acqua. Io sono il forestiero. Io sono l’altro.

La chiesa di San Nicola è piena di santi di gesso. Sfilata di Madonne. In sacrestia ce ne sono altrettante. Pigiate dentro un armadio. San Nicola è dietro l’altare. Fatico a identificare gli altri: so che c'è Sant'Emidio e la Madonna di Costantinopoli. Padre Pio è onnipresente. 
La Madonnina davanti alla chiesa, avverte una targa, è stata donata dall’onorevole Pino Palmieri, consigliere regionale del Lazio e consigliere comunale a Roscigno. Che sta in Campania. Palmieri è uno della lista Polverini. Qualcuno ha cercato, con graffi di chiavi, di cancellare il suo nome dalla targa. Mi presentano il consigliere al bar Crystal.

‘Io me ne scappo da qui’, è arrabbiata C. ‘Amo questo paese, ma qui non si può vivere. Non c’è speranza. Ci ho provato per troppi anni. Devo andarmene. Tornerò a bere una birra al paese vecchio, questo sì’.

Io sono venuto fino qua proprio per Roscigno Vecchia, paese abbandonato. Paese bellissimo. Dovrei capirne storia e destino. Devo scriverne per Terre di Mezzo, street magazine milanese. Quanto è lontana Milano dal Cilento? Non riesco nemmeno a sapere quanti soldi si sono spesi per i restauri del paese vecchio. Sento cifre immense: dai cinque ai dodici milioni di euro. Vado nella piazza abbandonata: è bellissima. Capisco C. Che dice: 'Il mio legame inscindibile con il paese'. E se ne vuole andare. 

‘Io ho scelto di vivere qua’, mi dice V. Che si occupa di tecnologie. Ed è arrabbiato come C. Ma la sua rabbia è più controllata. V.vuole rimanere. Perché? ‘Perché è bello’. Il padre tornò dalle Americhe pur di vivere al paese.



Roscigno Vecchia, la chiesa San Nicola



L’assessore ai lavori pubblici mi regala una ricotta. Buonissima. Mi porta nel suo garage. Ci sono formaggi e pomodori. E anche due foto di Mussolini trionfante sulla parete. Poi c'è la foto della sua nomina a ufficiale della Guardia di Finanza (stretta di mano di Giovanni Leone). E anche quella di quando, barba folta, stava all'antidroga. Sull’altra parete una Madonna dal grande cuore trafitto. Immancabile Padre Pio. C’è un graffito del Fuan. Fuori, l’insegna di un circolo di Alleanza Nazionale.

Giro per i bar alla sera. Solo uomini. Scherzo: 'Ci sono più donne per le strade di Kabul'. Vado a una cena: solo uomini (ma sono due donne, che appena intravedo, a cucinare). Consiglio comunale, sala stracolma: solo tre donne (e due se ne stanno in silenzio). Paese machista, Roscigno? Ho qualche sospetto. Una donna cerca di smentire e mi dice: ‘Guarda le associazioni del paese. Sono formate solo da donne’. Vero: hanno a cuore il paese, fanno festival di poesia. Saranno le donne a salvare Roscigno?

Qui ci sono gli onorevoli di riferimento. Scopro che Roscigno è il paese del padre di Maurizio Gasparri. Tutti hanno un politico di riferimento: a Salerno, a Napoli, a Roma. Omaggiato e venerato. A lui ci si rivolge per i problemi. La politica, qui, è roba di famiglie. Se hai una famiglia numerosa, puoi star sicuro di vincere le elezioni. Ci si guarda male fra famiglie avverse. Come nei film di Sergio Leone. Chissà se ci sono anche Giulietta e Romeo?

Crisi di vocazioni. C’è un giovane parroco simpatico. Ha malinconie: 'Vedo la crisi dei valori'. Vorrebbe fare il monaco. Per aiutarlo, in estate, quando tornano gli emigrati, la curia manda su un prete del Lesotho. Accade in quasi tutte le piccole parrocchie di paese. Gli italiani non fanno più i preti. Vengono, come sui barconi, i ragazzi dell'Africa. A riempire un vuoto.

Un laboratorio di restauro nel ‘museo archeologico’ (una sola sala). Mai entrato in funzione. 15mila euro, mi dicono. 

Roscigno è ‘irraggiungibile’. Le frane si sono mangiate le strade. Solo una raggiunge il paese. Le altre sono chiuse, sbarrate con transenne e blocchi di cemento. Ma è stato lasciato lo spazio per le macchine. Si viaggia normalmente su strade chiuse. Polizia e vigili urbani, compresi. Addirittura si versa catrame sulla strada che sta smottando. 'Per aiutare i contadini a passare'.

Penso che queste montagne sono meravigliose. Che le ginestre sono in fiore. E che l’Italia è un paese lungo.
Roscigno, 26 giugno



lunedì 27 giugno 2011

A Napoli...

Via Toledo, 24 giugno


‘Ce la farà. Non sarà facile, ma ce la farà’. Ha fiducia la ragazza in piazza del Plebiscito. Giorno a Napoli. Tensione nell’aria. Bande di ragazzi hanno trascinato rifiuti nelle strade del centro. Cassonetti bruciati nella notte. De Magistris è stato improvvido a promettere di togliere i rifiuti dalle strade di Napoli in cinque giorni. Ce ne sono 2350 tonnellate. C’è chi ha deciso vendetta contro il nuovo sindaco. C’è chi vuole far pagargli quella vittoria così grande di fine maggio. La guerra dei rifiuti è perfetta. Basta rendere la vita impossibile a De Magistris. Così si scatenano battaglie di strada. Si bloccano i mezzi delle municipalizzate. Sarà un braccio di ferro pericoloso. Sarà un’estate dura. Uno scontro minaccioso. Alcuni ragazzi si ritrovano davanti alla prefettura. Applaudono il vicesindaco Sodano. Sono pochi. Indignados di Napoli. Ma la ragazza ripete: ‘Ce la farà’. Per quel che vale: ho la stessa sensazione. Il pasticciere di Pintauro, fra le sfogliatelle più celebri di Napoli, dice che nella notte avevano ripulito i vicoli dei Quartieri, ma poi sono apparsi dei ragazzi che hanno trascinato altri rifiuti all’angolo di via Toledo, strada centrale della città, e hanno dato fuoco. I rifiuti bruciati diventano ‘speciali’. Hanno bisogno di un trattamento diverso. Devono intervenire ditte specializzate. I costi della nuova pulizia impazziscono. L’intreccio napoletano è perverso. De Magistris ce la può fare solo se saprà avere con sé la città che lo ha votato.



Via Toledo, 24 giugno

‘Ce la farà’, mi ripete la ragazza. Sono disposti a provarci in tanti. Il  pasticcere dice: ‘E’ un sabotaggio’. Si esce dal negozio e si stringe il naso.
In una farmacia, un’altra ragazza rifiuta la bustina di plastica nella quale la farmacista aveva sistemato la medicina. Ha preso la scatola e ha restituito la busta. Nel condominio di Maria Laura e Massimo, quartiere di Montesanto, hanno deciso di realizzare un microcompostaggio collettivo. Al supermercato, molte donne hanno la borsa di tela. Valgono questi segni? Non so se De Magistris, ce la farà. Ho la sensazione che Napoli abbia voglia di provarci.
Napoli, 24 giugno

giovedì 23 giugno 2011

La guerra e una bottiglietta d'acqua

Pastore in Dancalia

Emanuele Giordana, giornalista e scrittore, sorseggia un bicchiere d’acqua. Gesto semplice. Emanuele sa di Afghanistan. E ci invita a guardare la guerra da un altro punto di vista. ‘Ci sono 140mila soldati stranieri nel paese’, dice. Questi soldati mangiano, vanno al gabinetto, hanno bisogno di stringhe per le scarpe. E bevono. Quanti litri di acqua beve un soldato in guerra? Emanuele è ottimista: ‘Tre litri’. In Afghanistan può fare freddo. Tre litri può essere una media nell’anno. Ma un uomo, appesantito dalla tensione e dal caldo dell'estate, ha sete. Come in deserto,si può arrivare a cinque litri. Un soldato deve bere acqua imbottigliata. Sono 420mila litri di acqua ogni giorno. Bottiglie che devono raggiungere ogni caserma e ogni avamposto. E’ un cammino lunghissimo. L’acqua viene comprata ad Abu Dhabi. Raggiunge, via cargo, il Pakistan. Risale fino a Quetta. Se i camionisti sono coraggio, la strada attraversa l'Afghanistan da Sud. Regione di guerra. Regione talebana. Dodici compagnie, con sedi fuori dall’Afghanistan, hanno il monopolio di questi trasporti, spiega Emanuele. Queste società pagano una tangente, un diritto di passo, per attraversare territori talebani. Ottocento, mille dollari a camion (se trasportassero armi, il pizzo sale fino a cinquemila dollari). La coalizione occidentale finanzia il nemico. Quella bottiglietta d’acqua costa in media un dollaro. Un calcolo impreciso, avverte Emanuele. Ma adesso fate voi i conti (e moltiplicateli per la carta igienica, per le scatolette di cibo, per i calzini….). Sono 450mila dollari al giorno. Le dodici compagnie di trasporti non hanno alcun interesse che la guerra in Afghanistan finisca. Le banche che hanno nei loro forzieri 130 miliardi di dollari libici,congelati dalle Nazioni Unite, non hanno alcun interesse che qualcuno si presenti a prelevarli. Follow the money.
Le guerre moderne, ipertecnologicihe, non finiscono mai (Iraq, Afghanistan, ora Libia). In un intreccio di stupidità, ferocia, quotidianità, business. E se finiranno sarà per una storia di portafogli.
Treno per Napoli, 23 giugno
Emanuele Giordana ha presentato ieri sera, nella terrazza delle Oblate, il suo ultimo libro. Pagine che raccontano gli altri punti di vista sulla guerra in Afghanistan. Si chiama: ‘Diario da Kabul’. Edito da ObarraO. La presentazione è stata organizzata dal Caffè Letterario di Avventure nel Mondo. 

mercoledì 22 giugno 2011

Il nome significa. Dallol, Pietre d'Oro

Khadir fra le fumarole di Dallol
Prospector minerari si sono intestarditi a cercar tesori attorno a Dallol. Avevano bisogno di una personale Alaska in questa solitudine africana. E, dal loro punto di vista, qualche ragione, o qualche illusione, l’avevano. Gente fuori di testa, i geologi. A volte andavano in giro di notte a far triangolazioni. Si orientavano grazie alle luci che affidavano a un afar. Solo che lui scompariva nel buio e altre torce cominciavano a ballare all’orizzonte. Il teodolite si metteva, allora, a inseguire punti fantasma. Dopo un po’, il geologo si spazientiva. L’afar ricompariva, ascoltava in silenzio, senza guardarlo, i rimproveri del bianco e poi faceva un semplice gesto con la mano: ‘Ginn’. Spiriti. Le terre delle solitudini sono condomini di spiriti. Folletti che hanno sempre guardato con saggia diffidenza questi bianchi miscredenti che, nell’ultimo secolo, hanno invaso la loro terra.  Dallol, non ricordo chi me lo abbia detto, è il ‘Monte degli Spiriti’. Ho preso per buona la traduzione. Ma infinite sono le variazioni: ‘Monte delle Streghe’, a leggere vecchie e già dimenticate cronache coloniali. ‘Monte del Diavolo’, ad ascoltare viaggiatori francesi. E Hussein, il lungo e magro Hussein, una sera che ebbe voglia di raccontare una storia diversa, decise di rispondere a una domanda distratta: ‘Sta per ‘pietre d’oro’’, disse. E poi si azzittì come a guardare l’effetto che le sue parole avevano prodotto. Mi piacque subito questo nome. Caccio via i Ginn (che ci sono, io li ho visti), cambio titolo al capitolo e così spero di riuscire a scriverne. Ci vuole prudenza a Dallol. I due fratelli Pastori (Tullio aveva una fratello, ricordate? Si chiamava Adriano) non hanno fatto altro che andare e venire fra il mar Rosso e Dallol. Per invogliare i suoi sponsor Tullio scrisse che, fra sali potassici e argento, rame e zinco, nel mondo surreale di questa collina, si trovava anche l’oro. Erano tempi antichi, cosa si sapeva allora dell’uranio e della radioattività? Hai ragione, Hussein. Meglio le Pietre d’oro. Faremo i cercatori a Dallol.
Scritto molto tempo fa, ritrovato in questo inizio di estate. A San Casciano



lunedì 20 giugno 2011

Dallol, il Monte degli Spiriti


Hussein fra i laghi di Dallol



Dallol è vicino ad Ahmed Ela. I turisti vengono fino a qua per Dallol. Più che per la Piana del Sale o il villaggio dei cavatori. E' il mito della bellezza di Dallol a convincerli ad affrontare un viaggio colmo di disagi. Sono le foto più che conosciute a essere sirena per i viaggiatori distratti.

Non occorrono trucchi per raccontare Dallol, il ‘Monte degli Spiriti’. Stiamo andando verso un luogo che non dovrebbe esistere. Un luogo che inganna e si maschera. Chi è arrivato fin qui, sa che cosa l’attende. Ognuno di noi, a bordo dei nostri disonesti fuoristrada, ha già visto cento immagini di questa collina che bluffa nascondendosi dietro un aspetto insignificante. Mica per niente è stato inventato Internet: nella rete i geysers di Dallol non smettono mai di sbuffare. Dallol, fra i viaggianti dell’Africa, è celebre come la Tour Eiffel. E’ una meta.

Siamo pigiati nelle macchine. Ci sono i soldati della scorta, le mie gambe sono incastrate contro la stoffa ruvida dei pantaloni di un militare. Che, naturalmente, ha occhiali a specchio e sta immobile come una sfinge. Mezz’ora di viaggio da Ahmed Ela. Piccolo spostamento, grande differenza. Cambio di geografie. Passiamo da un villaggio costruito con la fatica dei cavatori ai paesaggi sempre immaginati di Dallol.

Marciamo su una crosta salina che diventa color della ruggine. Mosaico di ossidazioni, direbbero i geologi. Acqua carsica che fa emergere le tinte forti dello zolfo, del ferro, di altri minerali. Asfaw è ben attento a non abbandonare la pista tracciata da decine e decine di veicoli che ci hanno preceduto. Qui lo spessore superficiale della Piana del Sale si assottiglia fino a creparsi. Il magma sotto i nostri piedi borbotta nervosamente. Il fuoco sotterraneo non è distante. Le macchine potrebbero sprofondare dolcemente in una fanghiglia di sale, gesso e potassa. Silenzio. Nessuno parla. L’emozione è diventata silenzio. Ognuno se ne sta con i suoi fragili pensieri, si calmano perfino i display delle macchine fotografiche. Il confine con l’Eritrea è a un passo. Il cielo è una lamiera. La crosta salina si arrossa, si crepa, si arriccia fino a spezzarsi. Gli esagoni del sale, qui, sono perfetti. La piana è una risacca marina cristallizzata: è come se le onde fossero andate a sbattere contro la collina di Dallol e fossero tornate indietro. I nostri occhi guardano avanti. Cercano. Non vedono. Da lontano, Dallol  non ha alcuna grandezza. La collina non ha glorie, non ha asperità. Non ha nemmeno bellezza. E’ sfiancata. E’ come se qualcuno avesse lasciato andare sul tavolo di marmo un impasto di farina troppo liquido e lo avesse dimenticato lì. Si è solidificato così. Sopra il forno. Gli spiriti di Dallol hanno lo stile di chi sa nascondersi. 
San Casciano, 20 giugno. Attorno ad appunti scritti in un giorno di febbraio

sabato 18 giugno 2011

La bellezza, Google e l'Africa

Lottatore nuba


Mi chiedono di scrivere un dossier sulla bellezza in Africa. Avevo molto insistito, tempo addietro. Credevo che Nigrizia,  fra le più importanti riviste che si occupano di Africa in Italia, dovesse affrontare questo tema. Per spezzare gli stereotipi che avvolgono questo continente.
Adesso devo scriverlo. Ma non c’è tempo. Il tempo non c'è mai.

Anni fa, senza idee, immagini che avrei cominciato a camminare. Avrei chiesto al droghiere. A chiunque incontrassi lungo la mia strada. Avrei parlato con un giostraio nella piazza. E con qualsiasi amico trovato per caso. Quante volte una loro parola casuale è stata la molla che ha aperto una porta che non voleva aprirsi. Quante volte avevo visto con occhi diversi quello che non riuscivo a scorgere con i miei.
Sarei tornato a casa. E avrei aperto dei libri sempre a caso. I più diversi. Li avrei sfogliati. Con impazienza. Avrei trovato un appiglio, un indizio, il primo passo di un percorso. E avrei cominciato a scrivere.

Ho pensato a tutto questo quando ho cliccato su Google. Ho esitato, credo per un minimo di vergogna, e ho scritto ‘bellezza’ e ‘africa’. Ho visto sfilare migliaia di siti. Ho trovato Dostoevskij e una bella lettera pastorale del cardinale Martini. Erano agganci ai quali aggrapparsi. Ho scritto.

E ora tutto questo mi sembra ‘triste’. Lasciar fare a Google anche in una storia così intrigante come quella della ‘bellezza’ mi sembra imperdonabile. Non me ne perdono. Non ho camminato. La tecnologia ha cancellato la ‘relazione’. Ha ridotto a una storia di bit e chip la ‘risoluzione’ di un problema. Mi si dirà: è uno strumento. Nient’altro. Tocca a noi. A me, utilizzarlo come tale. Temo che vi sia una qualche ipocrisia dietro questa difesa. Il panettiere mi avrebbe suggerito ‘La bellezza salverà il mondo’? O forse avrebbe avuto una originalità in più. O forse anche lui digita su Google….
L'articolo è un buon articolo. Un avvio. Che probabilmente non avrà mai un seguito, ma è un buon avvio. E, attorno alla bellezza, dovremmo pur ragionare.
San Casciano, 18 giugno

giovedì 16 giugno 2011

Arrivo ad Ahmed Ela. Un vulcano aiuta un diario-non diario

L'arrivo delle carovane del sale ad Ahmed Ela

Un vulcano ha deciso di nascere nuovamente. Un vulcano quasi sconosciuto. Non si ha memoria di eruzioni precedenti. Si hanno poche notizie. Il Nabro sta in Eritrea. Ai confini con l’Etiopia. Terra desertica. Non ci sono immagini. Se non dal satellite: una nuvola di fumo e cenere che in due giorni ha raggiunto il Tigray, si è spinta fino a Khartoum. Sono stati chiusi aeroporto. Un deserto di fuoco si prende una rivincita sulla modernità. La Dancalia, sepolta sotto la sua lava, dà ripetuti segni di vitalità. Il lago inquieto dell’Erta, le faglie che si aprono, ora il vulcano Nabro.
Mi viene in mente che ho abbandonato il diario-non diario del viaggio in Dancalia. E’ faticoso riprendere cammini interrotti. Copio. Prendo in prestito parole già scritte. Per ricominciare.

Il forno del villaggio



Il negozio di Ahmed Ela 
Controsole. Arriviamo da oriente. Dalla piana. Dalla polvere. Il sole, giallo-bianco, fuori dalla gamma dei colori, accecante se osi sfidarlo, galleggia sulla cresta delle montagne. La cortina violenta del vento aveva nascosto alla nostra vista, fino a questo momento, la muraglia dell’altopiano: adesso chiude l’orizzonte verso occidente, è un bastione di duemila metri di roccia, si alza come un baluardo ad arginare la ferita della Dancalia. Non si decide a tramontare, il sole. Ci aspetta. Le capanne di Ahmed Ela si confondono con i sassi grigi, con il sipario delle montagne, con le ombre del pomeriggio. E’ invisibile questo villaggio. Sembra sorgere dalle pietre. Ne ha lo stesso colore. Un non-colore. Grigio su grigio. Nebbia su nebbia. Le capanne di Ahmed Ela sono costruite con legni recuperati dal letto dei wadi. Sono coni scomposti e perfetti. E’ un irriconosciuto capolavoro di land-art, questo villaggio. Cercate un ecovillaggio senza compromessi? Eccolo, è qui, la vostra ricerca è finita, ci state arrivando. Ahmed deve essere stato il suo fondatore. Lui sapeva che qui era possibile scavare un pozzo. Sapeva che qui scorrevano le acque sotterranee che scendono dall’altopiano. Ahmed Ela, il pozzo di Ahmed.

Giocare al calcio fra i sassi di Ahmed Ela



Il villaggio è stato tirato su con i materiali che generazioni di uomini del sale hanno trovato nella polvere, nella sabbia, nella lava. Le donne hanno intrecciato le stuoie delle burra. I bambini hanno selezionato i legni più dritti fra i rami contorti delle acacie e li hanno trasportati sulle spalle fino alla loro futura casa. Non c’è un solo albero attorno ad Ahmed Ela. Nemmeno uno stentato filo d’erba. Non si può coltivare niente di niente. Questo luogo è oltre l’aridità. Ma gli afar hanno spostato massi su massi. Hanno perfino tracciato una parvenza di urbanistica. Nel loro vagabondare, hanno trovato corde, stracci, plastiche, lamiere. I wadi, dall’altopiano hanno trascinato nella depressione detriti, rifiuti, rottami. Sono eccellenti materiali da costruzione. E, così, come un improvviso cespuglio di piante del deserto, è nato Ahmed Ela.
Ahmed Ela, 21 febbraio. Riscritto il 15 giugno. Una notte di eclissi di luna.




martedì 14 giugno 2011

Follow money. Ma quanti soldi di Gheddafi ci sono in giro?

Com'era bella Tripoli


Ma quanti sono i soldi della Libia (fondo sovrano, Central Bank of Libya) nei conti correnti in giro per il mondo?
Nessuno ne ha certezza. Per Farhat Omar Bengdara, vicepresidente di Unicredit, ex-governatore della Banca di Libia (molto incerto nei primi giorni della rivolta da qualche parte schierarsi), sono almeno 130 i miliardi di dollari congelati in grandi banche o in arrischiati Hedge Fund. Alcuni parlano di 160 miliardi di dollari. Una montagna di soldi. Capace di suscitare inconfessate avidità di questi tempi. Cosa di può fare con 160 miliardi di dollari.

Global Witness, autorevole associazione inglese che studia i rapporti fra finanza e ambiente, ha fatto le pulci a banche potenti. Nelle casseforti di Hsbc (Hong Kong & Shanghai Banking Corporation), Goldman Sachs, JP Morgan, Société Général, Nomura e altri potenti banche arabe vi sono miliardi di dollari libici. A volte i finanzieri di Tripoli sono stati mal consigliati se è vero – sta indagando la Sec, l’organismo di vigilanza di borsa americano - che il fondo sovrano libico ha visto volatizzarsi il 98% di un investimento in derivati compiuto attraverso Goldman Sachs (l’investimento era di un miliardo e 300 milioni di dollari).

Nei giorni scorsi, i paesi che stanno combattendo la strana (e folle e feroce) guerra di Libia hanno deciso aiuti al Consiglio Nazionale Transitorio di Bengasi per un miliardo di dollari (600 milioni sono stati promessi dall’Italia). Gli insorti ne chiedono almeno tre miliardi.

Bengadara fa sapere in giro che Gheddafi sta finendo i soldi e, fra poco, non potrà comprare nemmeno la benzina per i carri armati. Sarà. La guerra è bloccata in un impasse. I ribelli non vinceranno da soli. I fedeli del rais hanno dimostrato di poter sopravvivere alle bombe della Nato.
Robert Gates, segretario della difesa americano con Bush e con Obama, lo prevedeva e non voleva impantanarsi in questa nuova guerra.

Ma dei vincitori già vi sono: le grandi banche internazionali che, nei loro forzieri, hanno tutti questi soldi libici che nessuno, al momento, può ritirare. Di questi tempi, è una manna avere questa liquidità, di fatto, a disposizione. Nessun banca ha ammesso di avere conti correnti che sono appartenuti al governo o ai fondi sovrani libici: ‘I nostri clienti non sarebbero felici se rivelassimo la presenza o meno di loro fondi nella nostra banca’, dice, con naturalezza, un banchiere a Global Witness. Quali nostri clienti? Dittatori e clan criminali?

E la guerra, sul terreno, quella vera,  non lascia alcuna speranza. Domenica sera, la trasmissione Report ha fatto vedere un filmato sugli orrori commessi dagli uomini di Gheddafi in marcia verso Bengasi. Si moltiplicano le notizie su vendette compiute dagli insorti di Bengasi. Le due propagande hanno le stesse falsità e ignominie. I bombardamenti della Nato certo non risparmiano i civili. La guerra si alimenta con il sangue e la voglia di vendetta. Chi perde sa che perderà tutto. Chi vince non avrà pietà. Un soldato di Gheddafi prendeva a calci in faccia un prigioniero. Poi erano solo le fosse comuni sulla spiaggia. Una follia.
San Casciano, 14 giugno



lunedì 6 giugno 2011

Hammangi

Il cimitero di Hammangi a Tripoli

La guerra in Libia non merita più nemmeno un articolo di giornale. Cancellata. E’ diventata routine. Come le tragedie dei migranti in mare. Il millennio dell’informazione totale azzittisce l’informazione. La fa diventare rumore di fondo.

Un articolo, però, sui giornali di ieri c’era. E allora leggo che hanno fatto irruzione al cimitero italiano di Tripoli. E’ conosciuto come Hammangi. Una volta qualcuno mi spiegò che si poteva tradurre con ‘Bagno Turco’. Non ne sono così sicuro, c’è assonanza, è vero, ma non mi torna. Chi ha assalito il cimitero? Bande di uomini fedeli a Gheddafi. Alla ricerca di un luogo simbolo sul quale rovesciare la propria rabbia per l’assedio e la fine vicina.

Leggo che Bruno, 77 anni, l’uomo che ha salvato questo cimitero, uno dei pochissimi italiani rimasti a Tripoli (ha rifiutato l’evacuazione quando tutti se ne andarono a marzo), era riuscito a portare a casa almeno l’archivio degli oltre seimila uomini e donne sepolte in quel cimitero.

Non so come definire il cimitero di Hammangi: non è solo un cimitero dei cristiani di Libia. Negli ultimi anni ha accolto i corpi dei migranti, di chi è annegato nel tentativo di raggiungere l’Italia, di chi non era di religione islamica. Ma qualcuno ha chiesto la religione a senegalesi, cinesi o nigeriani sepolti qua?

Sono entrato la prima volta al cimitero di Hammangi molti anni fa. Allora era in rovina. I sepolcri erano spezzati, lapidi in frantumi, ossa disperse. Era stato abbandonato dopo che gli italiani, nel 1970, erano stati cacciati, da un giovane Gheddafi, dalla nuova Libia rivoluzionaria. Furono passi nella malinconia.

Gli ossari del cimitero di Hammangi
Molti anni dopo un amico mi ha convinto a tornare ad Hammangi. Aveva appena scritto un racconto sul cimitero e sull’impresa compiuta, in solitudine, da Bruno e da sua moglie Nura. Il cimitero adesso era custodito. Grandi restauri erano stati compiuti grazie a finanziamenti del governo italiano e al consenso della Libia. Era stata restituita dignità a questo luogo. E il merito era tutto di Bruno e di sua moglie. Che avevano ricostruito le storie di tutti gli italiani che lì sono sepolti. Avevano consentito ai parenti di rintracciarli. Avevano dato pace alle loro ossa. Bruno parlava con questi morti. Era come se, e non sembri assurdo, li avesse salvato la vita oltre la morte. Aveva donato una memoria a chi era stato dimenticato.

Adesso l'assalto e la nuova devastazione.

Ecco, un altro effetto collaterale di questa guerra. L’odio di chi vede il suo mondo, quello creato da Gheddafi, sgretolarsi e non può che prendersela che con i simboli o con i deboli. Che spreco è il rancore. 

Leggete il racconto dedicato ad Hammangi e a Bruno nel bel libro di Luca Cosentino nel bel libro pubblicato da Terre di Mezzo: ‘Da Tripoli al Messak’. E’ la storia di una Libia che sta scomparendo sotto la guerra.

Bruno aspetta Luca all’ingresso del cimitero:

‘…..Bruno mi attende seduto su una vecchia panchina, accanto alla moglie. Sarà lui ad accompagnarmi in questa visita ed a raccontarmi le vicende di questo cimitero e delle persone qui sepolte. Bruno infatti lavora qui da quasi 20 anni ed è grazie a lui che è stato possibile portare a termine questo progetto di risistemazione, apparentemente un normale progetto di edilizia civile che però ha avuto in questo caso dei risvolti davvero fuori dal comune. Si doveva lavorare infatti su un terreno devastato, dove i corpi affioravano tra gli sterpi e i riferimenti erano del tutto smarriti. Occorreva ricostruire la geometria originale del cimitero, ritrovare le file e le tombe, riconoscere i corpi, risistemare le spoglie in nuove cassette, provedere alla classificazione e all'inumazione nei nuovi ossari. Mentre beviamo un thè verde all'ombra dei grandi eucalipti dell'ingresso, Bruno racconta come la parte più complessa sia stata proprio quella di dare un nome a tutti i corpi ritrovati sopra e sotto terra. Un lavoro durato anni e realizzato a partire da deboli tracce, una croce ancora in piedi, una bara con un nome, dei vecchi registri nell'ufficio amministrativo. Un'incrocio di dati e informazioni da far coincidere, come un'interminabile sciarada.
Bruno ha svolto questo compito immane con incredibile tenacia, aiutato solo dalla moglie e da un pugno di operai egiziani pagati alla giornata dall'ambasciata italiana. Per quasi vent'anni ha consacrato tutto il suo tempo libero a questo progetto, senza che gli fosse stato richiesto e senza essere pagato. Quando gli si chiede perchè abbia fatto tutto questo, lui risponde con disarmante semplicità che è solo compassione per quei poveri corpi di italiani morti lontano dal suolo natío e dalle proprie radici. Compassione per chi, come lui, non ha vissuto mai in Italia ma è italiano e deve aver diritto ad un fazzoletto di patria attorno alle proprie spoglie. Parole che esprimono un'idea comune eppure toccante, un concetto che suona nobile anche a chi, come me, è abituato a diffidare della retorica che sempre si associa al concetto di patria…’.

I guardiani egiziani sono fuggiti. Spero che siano tornati nel loro paese. Per Bruno e Nura, ora, è troppo pericoloso raggiungere ogni giorno il cimitero.
San Silvestro, 6 giugno

venerdì 3 giugno 2011

Quante bombe sulla Libia

Questa era Tripoli. I nuovi quartieri



La guerra trasformata in statistica. E’ stato deciso: altri tre mesi di bombe sulla Libia. Mi chiedo: cos’altro c’è da bombardare? Africani e russi stanno cercando di offrire esili dorati a Gheddafi. Il presidente sudafricano Jacob Zuma è stato ricevuto nella caserma di Bab al-Zaziya, una delle residenze-simbolo di Gheddafi. Ma non era stata ripetutamente bombardata? Quella caserma non è immensa.

Dall’ultimo giorno di marzo alla fine di maggio, a leggere le statistiche messe a punto dal Guardian, gli aerei della Nato hanno compiuto oltre tremila missioni sulla Libia. Sono stati colpiti 989 ‘obiettivi’. Le navi della coalizione (13mila uomini, provenienti da 18 paese, tre sono stati arabi, Qatar, Giordania ed Emirati) ne hanno bloccate 941 mentre cercavano di raggiungere Tripoli. Quaranta sono state abbordate.
Ecco. La guerra trasformata in numeri.
San Casciano, 3 giugno